Gianni Cerasuolo
Fa male lo sport

Naturalmente Buffon

Portiere da record e personaggio pubblico controverso: scommettitore e gaffeur, ma anche uomo sincero, ex depresso e tifoso. Gianluigi Buffon è il prototipo del "campione normale" che resta nella storia

Il record di imbattibilità (973 minuti con la porta sigillata nel campionato italiano) non aggiunge nulla alla già straordinaria storia di Gianluigi Buffon, detto Gigi. Uno di quei numeri 1 che rimarranno nell’immaginario collettivo come lo sono stati Zoff e Yascin, Zamora e Neuer, Schmeichel e Chilavert, Gilmar e Banks. Non è mica da questi particolari che si giudica un portiere.

Trentotto anni, tre figli (tutti con doppio nome…), un matrimonio sfumato con Alena Seredova (gli piacque subito guardando una sua foto in un negozio di biancheria intima), una nuova avventura con Ilaria D’Amico, sei scudetti con la Juve, un Mondiale nel 2006 e molte coppe (ma gli manca la Champions), Gigi Buffon ama dire le cose in faccia. La riscossa juventina – in un campionato che sembrava perduto ad ottobre scorso – è cominciata negli spogliatoi di Reggio Emilia, dopo l’umiliazione subita in campo con il Sassuolo. Questo fu il carico da undici di Gigi contro molti dei suoi compagni: «Dovremmo mostrare dei segnali di consapevolezza guardando la classifica e la nostra posizione. Questo significa che, se dopo due o tre gare può essere una banale coincidenza, dopo dieci non lo è più. E visto che non lo è , un approccio e un primo tempo indegno come abbiamo fatto oggi, sono qualcosa che sicuramente dobbiamo evitare. Alla mia età, non ho voglia di fare figure da pellegrino. E smettiamola di prendercela con gli arbitri…».

Non usò mezzi termini dopo il fallimento della nazionale di Cesare Prandelli ai Mondiali brasiliani: «Spesso si sente dire che c’è bisogno di ricambi, che Pirlo, Buffon, De Rossi, Chiellini e Barzagli sono vecchi. La verità è che quando c’è da tirare la carretta, questi sono sempre in prima fila. Bisogna rispettare un po’ di più loro, non per quello che sono stati, ma per quello che ancora rappresentano. In campo bisogna fare e non basta il “potrebbe fare” o magari il “farà”».

buffon5Dentro di sé, Buffon, ha un po’ di Valentino Rossi e un po’ di Alessandro Del Piero: guascone e ragazzo della porta accanto, molto ultrà a momenti, un poco sempliciotto in altri. Ama proclamare il suo credo e la fedeltà in certi ideali: Dio, patria e famiglia, per riassumere, anche se all’ultima voce ha mostrato qualche incertezza.

Nessuna indecisione invece verso alcuni personaggi politici: sostegno a Mario Monti e fiducia in Matteo Renzi («Ce la può fare, è l’uomo giusto ma servirà tempo»), stima per Giorgio Napolitano («Uomo di grande sensibilità, spessore umano, intelligenza… gigante fra i pigmei»). Non appartiene alla categoria dei “gufi” perché, «il nostro paese avrebbe bisogno di qualche messaggio positivo… invece di affogare nella solita meschineria di quattro soldi, nella nostra grossolanità e superficialità spicciola…». Sul suo profilo Facebook e dopo una partita di Champions si è commosso per Piermario Morosini, il calciatore morto per un infarto durante Pescara-Livorno del 2012, e Fabrizio Quattrocchi, la guardia di sicurezza privata uccisa in Iraq dodici anni fa. «Quattrocchi mi ha fatto vibrare il cuore con una frase che ancora oggi mi commuove: ora vi faccio vedere come muore un italiano».

buffon4Le cose mi escono come starnuti, è solito dire. Così ha giustificato anche certe uscite, non dalla porta. Frasi o atteggiamenti che gli hanno appiccicato addosso l’etichetta del fascistello. Si potrebbe invece dire che è uno che non ha studiato abbastanza, che ha fatto male le scuole medie.

Gli episodi sono notissimi e appartengono al passato. La canottiera con su scritto “Boia chi molla” nei primi anni con il Parma. Non è stato un errore, disse a Roberto Perrone, giornalista del Corriere della Sera e suo amico, che ha raccolto le confessioni del portierone in Numero 1, un libro del 2008, edito da Rizzoli. «Non è stato un errore, al massimo una botta d’ignoranza. Grave, non sapere, ma da qui allo scandalo che ne è uscito c’è un abisso». Quella scritta lui l’aveva letta a 13 anni, intagliata su un tavolo del collegio (il “Maria Luigia” di Parma, di fronte allo stadio; ambiente difficile, qualche canna, molti bulli e ragazzi con gravi problemi familiari) . E l’aveva riproposto, il “Boia chi molla”, sei, sette anni dopo come un incitamento ai compagni a resistere, visto che le cose, in campo, andavano maluccio.

Invece, quello del numero 88 non fu un errore. Quando fu costretto a cambiarlo per il numero 77, si pentì: di aver chiesto scusa alla comunità ebraica e di non essersi impuntato a tenere sulla maglia l’88. «Mi ricordo che era il 2000 ed era il primo anno che si poteva scegliere il numero. Io chiesi alla società lo 00, che per me era il simbolo delle palle… Mi dissero di no, che lo 00 non si poteva. “Allora” risposi “prendo l’88, che di palle ne ha quattro”. Non l’avessi mai fatto. Divenni il “nazista”…». Ignorava, ancora una volta. Il ragazzo ormai cresciuto era all’oscuro che, negli ambienti nazisti, l’88 significa <Heil Hitler> perché l’ottava lettera dell’alfabeto è la H. «Ma chi lo sapeva, chi lo sa, a parte chi nazista lo è davvero? Ma dài…».

buffon3E non ha visto e non ha sentito in altre occasioni. Quando nel 2006, festeggiando al Circo Massimo, il titolo mondiale della nazionale di Lippi, si mise in posa a ridosso di uno striscione, “Fieri di essere italiani”, con tanto di croce celtica. Oppure quando a Bratislava, due anni dopo, salutò come se nulla fosse, certi ultrà della Juve che lo stavano acclamando al ritmo di “Came-ra-ta Bu-ffon”. Persino quando ha invocato, giustamente, cautela nei giudizi sulle vicende del calcioscommesse, il pensiero è andato a confondersi con certe nostalgie: «Siamo sempre l’Italia di piazzale Loreto, basta un nome in prima pagina e tutto viene infangato, quando il fatto per ora non è chiaro».

Questo è il lato A. C’è però anche un lato B. Accade così che quando la nazionale azzurra, nel 2012, rese omaggio alle vittime dell’Olocausto visitando Auschwitz, Gigi Buffon scrisse sul suo sito: «Ragazzi, nulla è importante e prezioso quanto la libertà, difendiamola a costo della nostra vita. Oggi abbiamo fatto visita ad Auschwitz… brividi… brividi… entrare nell’epicentro del più grande genocidio che sia mai esistito. Le parole sarebbero superflue e non renderebbero l’idea, solo la riflessione può far capire tale disumana crudeltà… mi è tornata in mente una poesia che studiai alle scuole elementari e credo possa scuotere le nostre coscienze. Ve la consiglio, almeno per oggi dedicate 1 minuto a tutti i martiri di questo massacro, si chiama “Se questo è un uomo” di Primo Levi…».

Buffon si è sentito sempre un po’ bersagliato. Non dai tiri degli avversari. «Non ho mai fatto nulla di irreparabile, ma qualcosa di sbagliato o di politicamente scorretto, o di stupido, c’è stato nella mia vita» osservò a proposito delle sue black stories. «Comunque le mie storie nere sono sempre finite in prima pagina. Niente sconti, ho pagato tutto con foto segnaletiche stile “ricercato”».

L’errore più grande della sua vita, così lo definì, fu lo scandalo del diploma. Una maturità di ragioneria comprata, dopo aver frequentato per quattro anni la scuola. Venne scoperto ben presto, dando un dolore ai suoi familiari. «Fu solo colpa mia…, la scorciatoia mi faceva comodo». Non ha cercato scusanti a questa mossa truffaldina, uno sbaglio in contrasto con il suo carattere. Mentre ha sempre giustificato la sua passione per il gioco. «Se a uno piace giocare e lo fa con soldi suoi, che male c’è?». È stato sfiorato dallo scandalo nel 2006. Venne indagato dalla Federcalcio ma lui ribatté a chi lo accusava di aver truccato partite su cui aveva scommesso: «Fate come volete, ma vi dico una cosa: se riuscite a trovare una prova, anche minima di un mio coinvolgimento, non mi dovete squalificare per un anno o per due o per cinque. Mi dovete radiare. Subito». Anche più di recente, certi sospetti su un giro milionario di assegni, non hanno avuto seguiti. «Il gioco per me è una valvola di sfogo… è una sfida. Scommettevo sul tennis, ne capisco un po’… Ogni tanto poi, quando posso, vado al casinò: black jack, roulette, texas hold’em».

buffon1Ha giocato sempre la schedina fino a quando c’è stata. Anzi, piccolino, fece anche 13. Lo gridò, avrà avuto quattro o cinque anni, agli zii che lo guardarono e risero. Gianluigi pensava che bastasse contare i punti tutti insieme, su due colonne, e non su una sola. Stava a Pertegada, in quel periodo. Pertegada, una frazione di Latisana, provincia di Udine, il paese del padre: freddo, neve e fame. Aveva sempre la bocca piena, soprattutto di panini con la mortadella. Ne era ghiotto e li aveva a portata di mano: gli zii gestivano un negozio di alimentari. A casa, a Carrara, c’erano le due sorelline con i genitori, che non potevano permettersi la baby sitter. Inverno in Friuli, estate in Toscana. Fino a sei anni, quando cominciò la scuola. Più o meno alla stessa età lo iscrissero alla scuola-calcio del Canaletto, una piccola società di La Spezia, la sua prima squadra. Non giocava in porta ma a centrocampo. Così qualche anno dopo, nel suo esordio in un grande stadio, e che stadio, nientemeno che San Siro, riuscì a colpire addirittura la traversa in un confronto tra giovanissimi prima di una partita dell’Inter. A tredici anni la svolta, su suggerimento del padre: «Perché non fai il portiere?». Il ragazzino stravedeva per Thomas N’Kono, il grande portiere del Camerun: lo aveva visto ai Mondiali del ’90. E fu così che cominciò a tracciare la lunga linea a metà della porta prima di ogni inizio di partita. Indossava la maglia del Bonascola Calcio, club di Carrara. Poi furono Parma e Juve, l’affermazione, il successo, la popolarità.

Ma non sono state sempre luci: ha subito infortuni gravi (la schiena), ha attraversato periodi di scarsa vena, anche di recente (dopo Fiorentina-Juve di tre anni fa, 4-2, Maurizio Crosetti scrisse su Repubblica: «Ormai gli tirano addosso come si fa con i portieri scarsi…»), la serie B dopo i magheggi di Moggi & Co. («Una sorta di purificazione per la Juve, negli stadi di B la gente ci rispettava, non c’erano cori sporchi. Potevo andarmene, invece sono rimasto»). E poi c’è stato il buco nero. L’angoscia, l’alienazione, la nevrosi. Buffon ha sofferto di depressione. Aveva smarrito la propria identità, un po’ come Josef Bloch, l’ex portiere protagonista del romanzo di Peter Handke (e del film di Wim Wenders), Prima del calcio di rigore: avere paura di fronte all’avversario che ti è davanti e sta per colpire la palla. «Che cosa mi succedeva? Una cosa semplice, dopotutto: non ero soddisfatto dei mia vita e del calcio, cioè del mio lavoro… Per un mese sono stato completamente fuori di testa. No, non ho fatto nulla di sconvolgente, nulla di irreparabile, nessun gesto sconsiderato. Però era come se la mia testa non fosse mia, ma di qualcun altro; come se fossi continuamente altrove». Si affidò ad una psicologa, ne parlò in giro e il problema si risolse in pochi mesi tra il 2003 e il 2004. Buffon è riuscito a parare anche questo tiro mancino.

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