Fabrizio Coscia
Letture vagabonde

Mistero Nick Drake

Come è potuto succedere che il genio del cantautore inglese Nick Drake non sia stato riconosciuto, all'epoca, tanto da causare l'auto-annullamento del grande artista?

Era schivo, taciturno, terrorizzato dal pubblico. Ma la sua voce dall’incrinatura malinconica aveva una tonalità inconfondibile, la melodia delle sue canzoni non era mai banale, la sua tecnica alla chitarra, suonata quasi come un pianoforte, era insolita, originale, piena di inventiva, e alcuni suoi testi possedevano il dono di una poesia allo stesso tempo arcana e semplice. E tuttavia, dopo aver pubblicato il suo ultimo album, «Pink Moon», nel 1972, Nick Drake decise di rinunciare. L’album aveva venduto ancor meno dei suoi due precedenti, e si era rivelato un clamoroso insuccesso. Si ritirò nella casa dei suoi genitori, nella campagna del Tanworth, un piccolo villaggio a nord-est di Birmingham e qui passò i suoi ultimi due anni lontano da tutti e da tutto. Dopo un ricovero di cinque settimane in un ospedale psichiatrico si andò chiudendo in un isolamento sempre più cupo, tra antidepressivi, notti insonni e lunghe, solitari giri in macchina. «Ho fallito in tutto quello che ho cercato di fare», disse una mattina alla madre, camminando ossessivamente su e giù per la stanza. Leggeva le poesie di Browning e di Blake, e Il mito di Sisifo di Camus, e ascoltava molta musica. Soprattutto Bach, i Concerti brandeburghesi. Proprio quel disco girava ancora sul piatto dello stereo, la mattina del 25 novembre 1974, quando fu trovato morto nel suo letto dalla madre, a soli ventisei anni, per un’overdose di Tryptizol.

Se ne andò senza sapere che sarebbe diventato un cantautore di culto, senza poter immaginare che le sue canzoni sarebbero diventate così famose da essere utilizzate come colonna sonora di importanti spot pubblicitari, senza aver mai visto riconosciuto, insomma, il suo talento. E non so, francamente, che cosa gli sarebbe capitato se non avesse ceduto alla disperazione, quella notte di novembre in cui mise fine alla sua vita. Mi domando, come spesso in questi casi, quanto il fallimento abbia contribuito a mantenere intatta la sua ispirazione e quanto, viceversa, il successo ne avrebbe guastato la purezza. Non lo sapremo mai. Ci restano, però, i suoi tre bellissimi dischi, che ci accompagnano e ci consolano, nei lunghi inverni del nostro scontento.

nick drake2C’è una sua canzone, in particolare, che amo più di tutte. S’intitola Northern Sky, contenuta nel disco Bryter Layter, ed è una delle più belle canzoni d’amore che io conosca. C’è qualcosa nei suoi versi, nella melodia, nel canto, che non si lascia definire. È il sentimento della vita, sfuggente, aurorale, dolcissimo, un misto di euforica scoperta e di malinconica rinuncia. È come se insieme alle parole della canzone anche noi andassimo enumerando tutte le cose che stiamo vivendo per la prima volta: «I never felt magic crazy as this / I never saw moons knew the meaning of the sea / I never held emotion in the palm of my hand / Or felt sweet breezes in the top of a tree / But now you’re here / Brighten my northern sky». Parole semplici, che rimandano a qualcosa di così primigenio, di così essenziale – il cielo, la luna, il mare, il vento sugli alberi, la natura che partecipa all’emozione vibrante dell’animo umano e quasi dà risonanza al sentimento amoroso, che è un sentimento di scoperta, prima di tutto, o di ri-scoperta – parole semplici che a sentirle cantate in quel modo – con quegli accordi di chitarra, quell’accompagnamento discreto dell’organo, quegli agili guizzi di pianoforte, quei delicati tocchi di celesta – ci sembra, incredibilmente, di aver dimenticato. Al punto che ci domandiamo come sia stato possibile vivere fino a oggi senza sentir palpitare dentro di noi quella «magica follia», senza riapprendere questo alfabeto che si credeva perso, senza riacquistare la verginità di questo sguardo che s’era intorbidito. È un disvelamento, insomma. È come tornare bambini, quando si pongono continuamente domande stupide («Would you love me for my money / Would you love me for my head / Would you love me through the winter / Would you love me ‘til I’m dead»), ma allo stesso tempo si dischiude un nuovo occhio interiore («Oh, if you would and you could / Straighten my new mind’s eye»). Che una meraviglia così, presente in un disco perfetto, perfettamente suonato e arrangiato, sia passata alla sua uscita quasi inosservata, resta un mistero. Il mistero di un’arte capace di produrre il proprio fallimento, come un nocciolo oscuro nascosto dentro una diamantina bellezza.

Facebooktwitterlinkedin