Erminia Pellecchia
Alla galleria Plus Arte Puls di Roma

Un fulmine d’arte

Lampi di emozione, falci di luce e linee di passione: sono le nuove opere (olii e ceramiche) di Danilo Maestosi. Una ricerca a scavare il senso del colore e del bianco

«Ogni quadro è una fiala piena del mio sangue». Picasso descriveva così la sua pittura per evocarla sulla scena. Quella della sua prima commedia, Le dèsir attrapè per la queue del 1941, un’esplosione di vitalità in un mondo oscurato dalla violenza, la parola che diventa inno alla libertà, come dirà Sartre, tra gli intellettuali che, sfidando le imposizioni dell’occupazione nazista, lessero quel testo ribelle, una notte del marzo ’44. Rosso vivo. Sangue che pulsa come fuoco nelle vene è la piccola tavola a tecnica mista di Danilo Maestosi che fa da ouverture alla sua personale, Atlante inquieto, allestita fino al 14 febbraio nella raffinata cornice di Plus Art Plus, ben sei gallerie di arte contemporanea che interagiscono a mo’ di “cartello” negli spazi dell’ex Concessionaria Piaggio di viale Mazzini. Proprio lì dove negli anni Sessanta nasceva a Roma l’avanguardistico teatrino dei Centouno con l’esordio alla regia, era il 1965, di Antonio Calenda che, con Gigi Proietti, mise in scena la piéce, quasi mai rappresentata, di Picasso. Tra i giovani che collaboravano alle azioni di quel teatrino sperimentale c’era Maestosi, una tesi in corso su “Amleto o il dubbio nel diritto”, relatore il critico teatrale Nicola Ciarletta. Non se ne fece niente, resta il sottile dispiacere, un piccolo ricordo, rimosso, che affiora dalla nebbia. Così, sulla scia della nostalgia, ha battezzato il dipinto, modellando il titolo ne L’infinito preso per la coda (nella foto accanto al titolo). Ha un andamento musicale quest’operina che ricorda una chiave di violino, è la sottolineatura di una partitura, l’incipit dell’orchestrazione di un concerto di segni e colori scandito in venticinque tempi, venticinque quadri.

danilo maestosi opere2Tante sono le opere pittoriche in mostra, una selezione della produzione più recente, della nuova ricerca inaugurata due anni fa dal ciclo Innesti, segni annegati nel bianco, un grado zero nella lezione di Kandinsky, germogli che crescono in un vuoto apparente, che si generano e rigenerano e che ci dicono, nel loro continuo divenire, che nulla muore, che tutto si trasforma. L’artista romano ci restituisce un flash di quell’esposizione, collocando all’ingresso della sala, fuori dal corpus allestitivo vero e proprio, un doppio dittico di abbagliante luminosità, prologo e bussola per navigare nelle agitate acque del suo immaginario fluttuante tra passato e futuro, tra miti-illusioni e approdi di speranza. «La memoria è sempre in movimento. Non è qualcosa che ci permette di andare in magazzino e prendere una cosa come era là senza che nessuno l’abbia modificata», scrive Umberto Eco. Maestosi scandisce il tempo con il suo orologio interiore, non esistono un prima e un dopo, ma uno spazio da attraversare dentro e fuori, isole dove sostare per poi ripartire, un aldiqua che sconfina nell’aldilà. «Il mondo cambia – riflette da autore che usa con la stessa maestria, interscambiandoli, penna e pennello – si espande, si contrae, fugge in avanti e indietro, tra errori e orrori. Difficile stargli appresso perché cambia anche noi». Siamo spaesati, disorientati in quest’oggi senza più domande né risposte. Ma c’è un’àncora a cui aggrapparci: la intuiamo, pronti ad afferrarla per non precipitare sempre più nel baratro della perdita di valori e sentimenti, leggendo le mappe dell’atlante di vecchie-nuove geografie impaginato dall’artista che, coraggiosamente, mette a nudo la sua anima, inseguendo, sulle ali della fantasia, i sogni che accarezzava fin da bambino e che non ha mai abbandonato nell’età adulta.

danilo maestosi ceramiche1Lo fa con gesti essenziali, spontanei. Con linee morbide e flessibili. In volo libero oltre la superficie rigida dei legni che utilizza come supporto. Con graffi arditi che penetrano la profondità fino a scacciare le ombre e trasformarle in luce. Con macchie di colore che intessono racconti urlanti, struggenti, spirituali, sensuali in una sorta di diario intimo che si fa collettivo, teso com’è ad incrociare gli sguardi, le esperienze dello spettatore. A coinvolgerlo, spronarlo. A volte Maestosi accende cromatismi forti come in Ogni Dio ha la sua guerra o Piccoli scarti di disubbidienza, o ancora Nessuno che sappia costruire la sua pace, Le Furie. Ricordo con rabbia, Il cuore duro della terra, il battello dolente de Il mercante di schiavi. Altre in cui, al contrario, la tavolozza si stempera, diventa canto lirico come in Pan, l’ultimo rifugio, La casa delle sirene, Addio Didone, Eros. La piuma e le spine. Recinti magici. Ecco Le folgori pietrificate, un cimitero di fulmini di un Zeus ormai svanito, obliato dall’umanità che non crede più negli dei, che non ha più certezze. Eppure quelle saette mandano ancora bagliori, nell’attesa di un Giove che possa nuovamente impugnarle. Un Giove creatore, come dovrebbero esserlo gli artisti, gli unici che possono riscrivere l’universo.

danilo maestosi ceramiche2«Danilo Maestosi – appunta Ida Mitrano, curatrice della mostra – cerca tra cielo e terra, in quello spazio che tutto racchiude, il tempo della storia e oltre». Lavora tra macerie e rovine, scava tra i relitti, si veste da pescatore per tirar su, nella sua rete affabulante, tracce di pensieri interdetti, abbandonati perché ritenuti inservibili mentre, invece – suggerisce l’artista – «sono preziosi a proseguire il racconto dell’uomo che verrà». Sono schegge, scarti, fantasmi. Di cui va a caccia come un archeologo del silenzio. E li cattura, da temerario testimone di ri-esistenza, rinnovando l’originaria bellezza. È un’operazione che gli riesce meglio – lo sottolinea Gabriele Simongini – “giocando” con l’essenzialità purificata della ceramica (a Plus Arte Plus c’è una stupenda sequenza di argille di luce), ultima scoperta, l’arte antichissima appresa da apprendista al fianco di un grande maestro come Raffaele Falcone, nella sua fornace fucina di Montecorvino Rovella dove sono passati grandi come Ontani e Paladino. Dove perfino il fanciullo centenario Gillo Dorfles è stato a bottega. «Le presenze, le forme, i colori di queste ceramiche cercano un senso – avverte il critico – un assestamento, una stabilità impossibile, s’aprono, si contrappongono, s’agitano, si mescolano come carte da gioco gettate alla rinfusa e desiderose di ritrovare un ordine. Tutto si trasforma e procede nella danza unitaria della vita e della morte».

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