Loretto Rafanelli
Piccioni e il nostro tempo in un libro-intervista

Un ‘900 da Leone

La letteratura, i poeti, i critici, gli scrittori e le scrittrici, gli artisti, i Maestri e gli Amici, la famiglia, la musica, gli aneddoti, il giornalismo, la Rai. Il grande critico si racconta a Silvia Zoppi Garampi e al figlio Giovanni. E ne viene fuori un memorabile e indispensabile vademecum

Sono un estimatore di Leone Piccioni e rimpiango di non avere letto tutti i suoi libri, che sono tanti e disseminati nel tempo. Il perché di questa attenzione è molto semplice da dire: i suoi interventi critici sono mossi da intuizioni che situano il lettore in scenari nuovi, ha una scrittura fresca e leggibile, scevra da inutili artifizi, possiede una forte libertà di giudizio che lo pone oltre le ideologie, le scuole, le convenzioni letterarie, e ultimo, ma non certo marginale, un gusto ironico raro. La prova di tutto ciò me la fornisce ancora una volta un libro a forma di intervista (Attualità del mio Novecento, Edizioni Libreria Dante & Descartes, 140 pagine, 14 euro), curato da Silvia Zoppi Garampi, dove il grande maestro parla di tante cose del Novecento italiano, chiaramente di libri, di autori, di artisti, con i relativi incontri, di comunicazione, ma pure di vicende personali e familiari e anche politiche. Una lettura che sicuramente permette di avere una visione straordinaria della cultura e della società del secolo passato, o meglio, come dice Roberto Mussapi, nella originale introduzione: «Ci troviamo di fronte a un racconto che mette in luce momenti cruciali della nostra storia culturale, politica, spirituale», un racconto che è «una traversata lungo progetti artistici e culturali capaci di assorbire il dolore e la fatica della Storia e di offrirsi come visione essenziale, cifrata, alternativa, di un’epoca», come aggiunge Daniele Piccini nella postfazione.

ANDREOTTI GIULIONon è facile dire di un libro tanto ricco, così pieno di spunti, così affollato di storie, di nomi, di teorie, di studi, di aneddoti, che è poi il riassunto perfetto della vita di Leone Piccioni, che non è stato solo un critico letterario bensì giornalista, alto dirigente Rai, esperto di musica, traduttore, organizzatore di eventi culturali, giudice in importanti premi (e personalmente lo ricordo al Premio Ceppo a Pistoia, quando fu assegnato a Carifi). Una lunga esistenza dove la passione, lo studio, le relazioni amicali e professionali, l’impegno sociale hanno posto Piccioni al centro della vita culturale del nostro paese, diciamo un ‘crocevia’ unico, che ci consente, attraverso gli studi e le sue testimonianze, di comprendere, ben al di là di tanti testi storico-critici, come si sviluppò e si definì l’Italia del Novecento. Per tutto ciò credo che qualsiasi buon insegnante di lettere potrebbe piacevolmente condividere con i propri studenti delle quinte classi questo Attualità del mio Novecento. Magari partendo da un dato personale relativo a Leone Piccioni ma che in verità può permettere di comprendere un modo barbaro, criminale, di uso della lotta politica che mai dovrebbe essere ‘usato’ in una società civile, un caso esemplare da trattare nell’ambito dell’educazione civica. Un fatto che provò duramente la famiglia Piccioni, forse noto ai più ma che è giusto ricordare ancora una volta. Ci fu la morte per annegamento di una giovane donna, Wilma Montesi, quindi una accusa nei confronti di Piero Piccioni, il fratello di Leone. Una storia inventata, completamente falsa, che distrusse la famiglia gettata nel tritacarne per alcuni anni e ciò fu orchestrato per un semplice motivo: compromettere la figura di Attilio Piccioni (nella foto con un giovane Andreotti, ndr), allora vicepresidente del Consiglio del governo De Gasperi, nonché ministro degli Esteri, siamo nel ‘53, e prossimo a divenire il nuovo segretario della Democrazia Cristiana. Una vicenda che proverà duramente Leone Piccioni e che, azzardiamo, forse contribuì a determinare un nuovo modo di scrivere e interpretare la letteratura.

In una bella e affettuosa intervista del figlio Giovanni, posta in appendice, egli pone una domanda che mi pare centrale per focalizzare l’attività del padre, che fu certamente una figura decisiva del Novecento, ma spesso posta in relazione ad altri, principalmente a Ungaretti di cui è il massimo esperto, ma pure a Montale, Gadda, Pavese, Luzi, Bilenchi, Morandi, Burri, Carrà, ecc. (e certo già questo non è poco). Giovanni gli domanda: «Dopo la rassegna che hai fatto della critica letteraria italiana del Novecento mi chiedo dove si può collocare il tuo lavoro». Penso, allargandomi, che si possa più propriamente dire: «dove sta il suo tratto originale, come si può valutare la sua opera?». Qui Leone Piccioni risponde con le parole di Carlo Bo, allorché affermò che il lavoro dell’amico Piccioni «rivela soprattutto un interesse verso un desiderio di presa di contatto umano e che le letture sono finalizzate a un’esperienza sentimentale e sociale… valgono i tratti biografici, la misura umana».

Piero PiccioniQuesto si spiega, credo, non semplicemente dicendo di una scelta teorica a priori, ma più decisamente come derivazione di una serie di elementi: l’educazione familiare, quella cristiana, la presenza di un padre attento alle problematiche sociali e politico integerrimo, che nell’ambito familiare dovette da solo seguire i figli per via della morte della moglie, quando Leone aveva 9 anni. Ma penso che questa attenzione alla dimensione umana di cui diceva Bo, possa essere stata ancor più “formata” da quella vicenda, dall’accusa infamante al fratello Piero (nella foto, ndr), uscito in modo totalmente pulito da quella storia, ma che provò certamente tutti i familiari. E scavò nel cuore e nella coscienza del critico, ancor più ancorato così alla regola dell’onesta intellettuale, alla partecipazione attiva nella società, all’etica dell’impegno, dello studio, del giudizio.

Ecco allora che per Leone Piccioni la critica letteraria non solo diverrà filologia, ricerca accademica, studio delle varianti (che saranno sicuramente uno dei capisaldi della sua concezione teorica), ma senz’altro confronto con quella misura umana che deve muovere lo scrittore e il critico, e quindi il senso di giustizia, l’attenzione ai connotati sociali, al superamento della distinzione cultura alta e popolare (da qui la grande considerazione per il jazz o la musica brasiliana), al sentimento, alle emozioni, alla psicologia dei personaggi, in uno snodo dove, come dice Daniele Piccini, la sua cultura «si rivolge al pubblico più ampio: si potrebbe anzi dire che il peculiare punto di osservazione del testimone che racconta sia proprio quello di un possibile incrocio tra cultura alta e divulgazione, tra popolarità e qualità». Una tensione umana che si evidenzia ad esempio nel libro dedicato a Pavese, Vita e morte di Cesare Pavese, dove appunto «assume un forte rilievo la componente psicologica e sentimentale».

Piccioni e UngàMa detto questo non va sottovalutata l’attività più propriamente specialistica, si pensi agli studi leopardiani, con la pubblicazione di un volume dal titolo Linea poetica dei Canti leopardiani, un esercizio di grande approfondimento teorico e intellettuale, linea che seguirà tante altre volte, come nell’approccio a Foscolo, dove si sofferma sui tre tempi della sua produzione letteraria (Ortis, Sonetti, Odi; I Sepolcri; Le Grazie ) e a Verga, dove a differenza di altri individua un ritorno dello scrittore dopo I Malavoglia a libri mondani dopo aver scritto romanzi in “senso popolare”. Oppure lo studio delle varianti che sarà uno degli aspetti critici su cui più ha insistito, questione che si riassume se «l’edizione di riferimento da pubblicare doveva essere la prima e che tutte le varianti successive dovevano andare in nota» o, invece, come lui stesso sosteneva, «l’ultima edizione come quella da riportare, e le altre precedenti come varianti», come farà per il Meridiano di Ungaretti, impostazione dallo stesso Ungaretti condivisa. Può sembrare un poco marginale questa questione, in verità parlare delle varianti è come parlare della fase di creazione del poeta, della legittimazione dell’immagine poetica, come vedere il percorso compiuto, del perché il poeta passa da una parola all’altra da un verso all’altro, cosa si accantona a favore di altro e perché, come nel caso di Ungaretti, che incalzato dallo stesso Piccioni, passa nella poesia dedicata al suo ultimo amore, da “Ti amo Dunja” a “notte lucida”, in cui il miglioramento è evidente, ma il passaggio tutto da interpretare.

Il rigore di Leone Piccioni è il rigore che apprende in famiglia e a scuola, già nel severo e impegnativo Liceo Forteguerri di Pistoia, poi nell’Università di Firenze, col suo grande maestro Giuseppe De Robertis, che gli insegna le ‘regole’ basilari per fare critica, partendo da una cosa semplice eppure sempre ricordata da Piccioni e che diverrà fondamentale ai suoi occhi: «per parlare di un autore bisognava aver letto tutto… quando ho scritto qualcosa, bene o male che fosse, dietro c’era la lettura di tutto Foscolo, di tutto l’Epistolario di Leopardi, di tutto lo Zibaldone, con annotazioni che facevo via via, e così fu per Verga…»: un grande insegnamento per tutti, un richiamo all’onestà critica. E a leggere questa intervista si rimane impressionati dalla mole di letture che Piccioni ha compiuto, per ogni singolo autore non un libro ma appunto i libri, con i relativi distinti giudizi. Il che fa muovere al lettore di Piccioni uno stato di ammirazione da un lato, ma pure lo sollecita a colmare le tante lacune, soprattutto quando c’è affinità di gusto, un gusto letterario che include i grandi poeti come Ungaretti, Montale, Saba, Luzi, e tanti narratori, a incominciare dai suoi amati (ma pure dimenticati oggi) Tozzi, Bilenchi, Pomilio, Gadda, Rea, Pea, Palazzeschi, Landolfi, Parise, ecc.

cop PiccioniOppure per andare ai critici, oltre a Bo, Praz, Longhi, De Robertis, Serra, c’è un importante richiamo a Cecchi, ammirato soprattutto per la bravura della sua scrittura, con quella prosa poetica che anch’egli cercherà a volte di seguire. Gusti vari, eterogenei, dove c’è sempre un equilibrio nel giudizio: ne dà prova nel confrontare Ungaretti e Montale, ci si aspetterebbe uno smisurato sbilanciamento verso il suo amato Ungaretti, invece dice quasi sorprendentemente: «…a me piace Ungaretti e mi piace Montale… sento Ungaretti più vicino a me quando si devono toccare e affrontare temi drammatici, i temi del dolore, della morte… e Montale invece, ti persuade molto di più nelle epoche in cui è giusto fare della critica sociale, occuparsi polemicamente della situazione etica del tempo… anche se solo di rado porta a una forte emozione». Aggiungo, giudizio non solo equilibrato, ma perfetto.

Non tutti gli interessi e gli studi portati avanti da Piccioni si possono riportare, vorremmo tuttavia ricordare la sua passione per la letteratura americana, specie quella nera, gli approfondimenti nel campo musicale, aiutato in questo dal fratello Piero, grande musicista e autore di centinaia di colonne sonore per film, e la grande passione per l’arte: conobbe quasi tutti i grandi artisti italiani del Novecento, da Guttuso a Gentilini, da Manzù a Marini, e i più amati, Burri e Morandi. Di Burri dice che la sua visione si esprime «nelle materie… con quadri che sono un po’ curvi… un po’ scioccanti», di Morandi, di cui è affascinato, individua nella sua pittura «una grande poesia… con quella variazione sul tema che è un principio che viene dall’antichità».

OLYMPUS DIGITAL CAMERAMa infine alla luce di tutte queste competenze, con tutti questi personaggi, dei tanti interessi per le varie espressioni artistiche, dove batte il cuore più profondo di Leone Piccioni? a quale fuoco si è maggiormente riscaldato? «C’è la musica, c’è l’arte figurativa, la narrativa, la poesia… la musica, pur regalandoci momenti di fortissima emotività, si basa su un rapporto che definirei anonimo, perché manca un significato che si possa trascrivere, come avviene nel caso della poesia dove si ha un testo che comunque leggi… ed è così anche per le arti figurative… la poesia porta a emozioni eguali, forse anche più grandi, grazie alla significatività di un testo, un testo che può riunire i lettori e i popoli, perché ci fa emozionare». Giudizio estremamente centrato, che dice tutto del perché la poesia debba essere al centro del nostro pensiero, essendo non letteratura ma, come dice Gamoneda, un progetto spirituale, dove la forza del testo assume connotati unici eppure in qualche modo emozionalmente condivisibili. (Nella foto, una serata a Massenzio in omaggio a Piero Piccioni. Sullo sfondo un’immagine dei due fratelli, ndr)

Dimentichiamo certamente molto di questa storia unica nell’attuale panorama culturale, soprattutto non diciamo delle innumerevoli relazioni allacciate con scrittori, artisti, personaggi radiotelevisivi o della politica, o del mondo ecclesiastico come quella con Papa Roncalli, ma forse è bene menzionare quella con Domenico Rea, che nel recente libro Anche in una lettera io sento il peso della parola (la pubblicazione delle lettere intercorse tra i due nell’arco di quaranta anni, a cura di Emanuela Bufacchi, Edizioni Libreria Dante & Descartes), partendo da un fatto che coinvolge anche il padre Attilio. Rea ebbe una recensione da parte di Leone Piccioni al libro Gesù, fate luce, e in una lettera ringraziava il recensore, dicendo pure della povertà in cui viveva a Nocera Inferiore. Questa informazione delle condizioni di miseria, una volta conosciuta da Attilio Piccioni, fece sì che innanzitutto gli fossero inviati dei denari, quindi gli fosse garantita una occupazione nel ruolo di bidello, poi, assecondando il suo grande sogno, di bibliotecario. Una prova di generosità dei Piccioni, secondo un dettato cristiano sempre vivo e teso a partecipare alle situazioni altrui.

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