Fabrizio Coscia
Letture vagabonde

Il secolo di Granados

L'amore, la morte, la musica: nella parabola meravigliosa e tragica del grande compositore Enrique Granados e nella sua opera “Goyescas” c'è una metafora del Novecento

Morì per una banale catena di coincidenze, come forse tutti si muore. Ma in più, a differenza di tutti, Enrique Granados, pianista e compositore spagnolo, morì anche e soprattutto per amore. Forse, segretamente, nel tentativo di rendere la sua suite per pianoforte «El amor y la muerte» (ispirata al decimo Capriccio di Goya) una perfetta coincidenza con la sua vita, affinché l’opera fosse tutt’uno con il suo destino. Bisogna ascoltarla nell’ardente esecuzione di Alicia de Larrocha, questa musica tratta dall’opera «Goyescas», come l’ho ascoltata io la prima volta (e da allora ascoltata ancora e ancora, ossessivamente) per afferrarne tutta la bellezza. Ricchezza cromatica, senso naturale dell’improvvisazione, intensitàmelodica concorrono a fare di questo capolavoro pianistico un’opera in cui si condensano in una misteriosa armonia, «profondo dolore, amore nostalgico e tragico finale di morte», come lo stesso Granados scrisse. In fondo, una esemplare rivelazione del carattere più archetipico della Spagna.

Le «Goyescas» ebbero un grande successo, al punto che il compositore ne trasse anche un’opera (meno bella), che debuttò al Metropolitan Opera di New York il 26 gennaio 1916. E qui ci fu la prima delle tessere che contribuirono alla composizione di quel mosaico di coincidenze tragiche che fu la morte di Granados: finita nel 1914, infatti, l’opera non poté debuttare in Europa a causa dello scoppio della prima guerra mondiale e il compositore spagnolo fu costretto ad annullare la data della prima, finché non fu organizzata due anni dopo a New York. Nonostante le crisi nervose cui Granados era spesso soggetto e la sua fobia del mare, il pianista accettò di imbarcarsi con la moglie Amparo per assistere al suo trionfo. Subito dopo, arrivò l’invito a suonare per il presidente americano Thomas Woodrow Wilson. Ed ecco la seconda coincidenza, filata da silenziose Moire, celate dietro le quinte della vita del compositore: il concerto tenuto per Wilson causò un ritardo che costrinse Granados e la moglie a perdere la nave che doveva riportarli direttamente in Spagna. Così i coniugi raggiunsero prima Londra, e da qui, il 24 marzo 1916, si diressero al porto di Folkestone, sullo stretto di Dover. Quante tessere ancora dovevano combinarsi per giungere al risultato finale? Ritardi, combinazioni di treni e navi, mentre tutt’attorno, in Europa, la guerra impazzava, e dunque: dispacci, ordini, movimenti strategici, errore umano. Tutto stava congiurando per un unico obiettivo. La nave Sussex della compagnia navale francese salpò alle 13.15 con destinazione Dieppe. Un’ora e un quarto dopo, un sottomarino di guerra tedesco UB-29 intercettò l’imbarcazione, e la scambiò per una nave da guerra, pertanto, verso le 14.50 lanciò un siluro che colpì il Sussex nel mezzo, spezzandolo a metà.

Enrique GranadosIn tutto questo, la musica dov’era? Quelle note che si accendevano e spegnevano come faville, quelle sonorità inebrianti che Granados (nella foto) aveva partorito dalle mani e dalla mente, restavano così, sospese e inutili, di fronte a quell’inesorabile concatenarsi di eventi? Oppure una tensione oscura nascosta nel loro dispiegarsi contribuì a rendere il tutto degno di un «tragico finale di morte»?

La prua della nave affondò subito, mentre la poppa andò alla deriva e fu rimorchiata più tardi nel porto di Boulogne. La cabina dei Granados si trovava a poppa, e in essa sono stati trovati i loro bagagli e molti oggetti personali, ma al momento dell’impatto la coppia si trovava in un’altra parte della barca. Enrique Granados deve esser stato preso dal panico, come quasi tutti, in quei momenti concitati: caduto in mare, fu subito issato a bordo di una delle scialuppe di salvataggio, che lo scampò da un sicuro annegamento, dal momento che non sapeva nuotare. Ma quando, all’affannosa ricerca di sua moglie, vide la donna poco lontano che lottava tra le onde, Granados non ci pensò su due volte e si gettò in acqua nel tentativo disperato di salvarla. L’amore e la morte, proprio come nella musica ispirata al quadro di Goya, si ricongiunsero in quegli istanti fatali: i due furono travolti dai flutti e sparirono alla vista dei soccorritori, annegando abbracciati l’uno all’altra. E questa volta non fu colpa di nessuna coincidenza; la tessera finale fu scelta da un istinto potentissimo e indomabile: fu la forza di un legame simbiotico, lo slancio che ci spinge in soccorso di chi si ama senza riserve, senza egoismi, nevroticamente forse, ma incondizionatamente, al punto tale da considerare l’altro come parte di se stessi. Granados sapeva di andare incontro a morte certa gettandosi da quella scialuppa. Cosa lo spinse dunque? Semplicemente il desiderio di unirsi alla sorte della moglie amatissima: quella Amparo Gal y Lloberas, figlia di un industriale valenciano, conosciuta ventiquattro anni prima e sposata dopo un anno, che gli diede sei figli, e alla quale l’uomo non volle sopravvivere.

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L’acquaforte «El amor y la muerte» è la decima delle ottanta stampe che compongono i «Caprichos» di Goya, realizzati nel 1799. Rappresenta un uomo ferito, le braccia lungo il corpo, il corpo piegato in due e appoggiato a un muro basso; mentre una donna cerca di sostenerlo tenendolo con entrambe le braccia. A terra, nei pressi dell’uomo, una spada. I volti dei due personaggi sono entrambi angosciati: quello dell’uomo per la presenza della morte che già sente arrivare, quello della donna per la disperazione. Le notazioni autografe di Goya, che lavorò a questo disegno a più riprese e in diverse forme, accennano a un duello tra rivali in amore, riferendosi con molta probabilità a un adulterio scoperto e punito con la morte. Eppure, nonostante la drammaticità esasperata del soggetto, la cupa presenza di un castigo di morte, la musica di Granados, nella sua «balada», riesce a toccare corde del tutto nuove, rispetto alla visione goyesca. Oltre la tumultuosa e animata partecipazione romantica, si scorgono infatti inattese aperture di rasserenata dolcezza, soprattutto nel tema, di uno chopiniano lindore, che sembrano alludere a una pace cercata, compassionevole, che non ha più nulla di tragico. Come se il compositore avesse trasformato un duello d’onore in uno struggente canto di addio.

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Ogni volta che riascolto le «Goyescas» resto incantato dalle sue ripetizioni melodiche, dalla delicatezze di certi passaggi, dalla vitalità trascinante e dalle atmosfere magiche che quest’opera è capace di evocare. Ma quando arriva il momento di «El amor y la muerte» non posso fare a meno di pensare alla fine di Granados, al momento in cui l’uomo si è trasformato in un Orfeo disposto a rituffarsi nelle profondità degli inferi per non abbandonare la sua Euridice. A quella scena da Titanic che mi appare tragica e beffarda e commovente allo stesso tempo. Vedendolo nelle foto, Granados ci appare come un hidalgo dallo sguardo languido e la bocca sensuale nascosta da un paio di baffi spavaldi, a spiovente. Lo sguardo di un uomo capace di amare. Basta ascoltare le sue «Goyescas» per capirlo: è un amore che non ha nulla di sentimentale, quello che esprime questa musica, ma semmai di tragico, con una pienezza erotica che seduce e inquieta allo stesso tempo. Un amore che porta impresso nelle sue tonalità, nei suoi chiaroscuri, nella sua feroce malinconia, già l’impronta della sua fine, come un limite che occorre superare. Come un salto nel vuoto.

«Che tristezza non poter essere allo stesso tempo molto ricchi e molto poveri – scrisse alla sua futura moglie il compositore – Per questo vorrei essere capace di darti tutto ciò che meriti, ma allo stesso tempo anche essere degno della tua compassione, che è qualcosa di molto più importante della vita stessa. Ricco per il tuo benessere, povero per il tuo cuore».

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