Alessandro Marongiu
Analisi di uno scrittore trendy/2

Fenomenologia di Volo

Che cosa c'entra la popolarità con l'estetica? Qual è la genesi di un fenomeno commerciale basato sull'analfabetismo italiano? Si concludono le nostre riflessioni in margine al successo di Fabio Volo

Si dice: il pubblico è sovrano. Ciò che è vero, bene precisando però, per evitare miscomprensioni, quale sia il dominio su cui questa sovranità si esercita. Si materializzi in termini di biglietti o libri venduti, di spettatori o ascoltatori, poco cambia: il dominio è quello del gradimento, del successo. Lì, senza dubbio alcuno, il pubblico impera. Chi, ancora oggi, fosse così sprovveduto da legare in maniera univoca a un vasto riscontro tra la gente il valore estetico di un’opera artistica o di un prodotto televisivo o radiofonico – relazione che qui nessuno si sognerebbe mai di negare a priori –, dovrebbe essere in grado di dimostrare, ricorrendo a degli argomenti validi e condivisibili (ovvero a degli argomenti critici e non al suo gusto personale) che “Grande fratello”, nel complesso il programma di gran lunga più visto del piccolo schermo italiano, ne è anche quello di maggior valore estetico. E, ancora, che “Quo vado?” con Checco Zalone è la pellicola di maggior valore estetico del cinema nostrano. Lo sforzo del tal sprovveduto sia dedicato a miglior causa: il suo cimento sarebbe senza chance di riuscita. Semmai, è un’altra la relazione che si può stabilire (è un’ovvietà, certo, ma non si sa mai: è preferibile esplicitarla che tacerla, per ogni evenienza): quella tra la semplicità di un’opera o di un prodotto e le sue possibilità di diffusione presso il largo pubblico. Prendiamo proprio “Grande fratello”: non offre più che una versione basica dell’umanità: lotta per il territorio, per il cibo, per la riproduzione. Non crea nessun impedimento di comprensione, non pone problemi, non impegna la mente (al massimo, qualche senso): tutti, se vogliono, a prescindere da cultura individuale, estrazione sociale, età, genere, provenienza geografica, possono avervi accesso. Se ha avuto dieci milioni di spettatori a puntata, è anche perché ha potuto pescare in un bacino di oltre cinquanta milioni di potenziali fruitori.

Veniamo a Fabio Volo. I suoi eccezionali esiti – otto romanzi scritti e sette milioni di copie vendute solo in Italia –, lui li attribuisce al fatto di essere bravo: che bravo non sia, per usare un blando eufemismo, almeno limitatamente a La strada verso casa, lo si è ampiamente dimostrato nella prima parte di questo articolo (clicca qui per leggerlo), quella prettamente recensoria. I supporter sostengono che la chiave della sua fortuna stia nella capacità di indurre emozioni e di far riconoscere i lettori nelle sue storie. All’emozione non si comanda: e non si entrerà di conseguenza, com’è giusto, nel merito dell’interiorità di nessuno. Quanto al secondo punto, cominciamo con una distinzione (anch’essa un’ovvietà, quanto necessaria): quella tra identificazione e riconoscimento di sé. Ci si può identificare in (quasi) qualunque personaggio, se uno scrittore è capace (diciamo pure che deve essere straordinariamente capace), anche se quel personaggio non ci appartiene: se cioè non appartiene alle nostre vicende singole o collettive, se non ha le nostre stesse radici. (Un ottimo esempio è costituito da Ogni giorno è per il ladro di Teju Cole). Il riconoscimento di sé richiede, diversamente, un terreno condiviso: una base sovrapponibile di esperienze, un sentire identico o affine che faccia dire: «Quel personaggio di cui sto leggendo mi somiglia», o «quel personaggio sono io, questa storia parla di me». Il terreno offerto da La strada verso casa è questo: padre, madre, due figli maschi in età liceale; la madre muore per un male incurabile; per non deludere nessuna delle aspettative nei suoi confronti (o quelle che lui ritiene, non sempre con senno, sussistano), il figlio maggiore Andrea negli anni successivi si laurea, trova un buon lavoro, si sposa; il minore, Marco, reagisce al lutto differentemente, schiva i problemi (dopo esserseli creati o averli creati al prossimo, in primis alla fidanzata di gioventù, con cui dà luogo a un estenuante tira e molla anche dopo che lei ha formato una sua famiglia), non fa i conti con se stesso e, ormai adulto, finisce per riparare altrove, a Londra, dove lavora nella ristorazione. La malattia del padre, da subito grave e che peggiora con speditezza, fa sì che i fratelli si ricongiungano, e si confrontino tra di loro e poi ognuno con il proprio passato e il proprio presente; la morte del genitore svelerà alla coppia di consanguinei un segreto sorprendente (che costituisce l’isolato spunto di dignità del libro) e dalla grande portata emotiva (per loro). Questa la trama principale. A far da corollario c’è il turbolento andirivieni sessual-sentimentale di Andrea e Marco: l’uno, saldissimo di principi, per tutta la vita ha rifiutato anche solo l’ipotesi del tradimento coniugale, salvo poi instaurare un relazione clandestina con una collega giovane e piacente che gli fa raggiungere nuove cime del piacere: accadrà, comunque, solo dopo aver scoperto che la moglie tradisce lui e giusto per il tempo di realizzare che l’alternativa giovane e piacente non gli è gradita a sufficienza, constatazione che lo porterà a provare a rimettere in piedi il suo matrimonio dietro proposta della consorte (che l’avanza non perché aneli alla riunione, ma semplicemente perché nel frattempo è stata lasciata dall’amante: e non durerà, infatti); l’altro incrocia per l’ennesima volta la sua con la strada della vecchia fidanzata (complice la madre di questa, sua mancata suocera, sull’accappatoio della quale Marco, da ragazzo, si masturbava in gran segreto con la scusa di andare al bagno), si convince che la figlia che lei ha avuto con il marito sia in realtà figlia sua perché – testuale – da una foto nota che alla bambina mancano i lobi delle orecchie esattamente come mancano a lui, e conclude la parabola lunga due decenni con una scontata separazione dato che, gli dice la donna, ora che ha quarant’anni è in fondo lo stesso di quando ne aveva venti e pare non ci sia verso che cresca, né ora né poi. Per farla breve, siamo di fronte a: fratelli con temperamenti opposti; malattie di congiunti; persone che si trovano davanti a un bivio e non sanno che direzione scegliere; persone che si trovano davanti a un’esistenza che non li soddisfa; corna; oggetti della vecchia casa di famiglia che suscitano ricordi della vecchia vita in famiglia. Siamo, insomma, di fronte a situazioni comuni: talmente comuni che la stragrande maggioranza delle persone che dovesse leggerle inevitabilmente vi rintraccerebbe qualcosa di sé. Chi non ha affrontato o sta affrontando la malattia di un parente stretto? Chi non ha messo in discussione una sua scelta del passato? Chi non ha un fratello dal temperamento tutto suo, o non conosce due fratelli agli antipodi? Chi non ha avuto un grande amore durante l’adolescenza che poi, all’alba dell’età matura, s’è dissolto? Se il terreno condiviso è questo, e questo è, chiunque potrebbe evocare la capacità di Volo di far riconoscere i lettori nelle vicende de La strada verso casa: il vero prodigio sarebbe semmai rinvenire qualcuno che non vi si riconoscesse.

Beninteso: nel trattare la quotidianità non c’è niente di male; a segnare lo scarto è il come lo si fa. La scrittura di Volo esibisce una povertà e una sciatteria difficilmente superabili, e la confusione (di tecniche narrative, di concetti) è una costante di tutto il suo romanzo. Di questo abbiamo detto la settimana scorsa: e per dimostrare incontrovertibilmente quanto siano inconsistenti talune rivendicazioni dell’autore, e per arrivare oggi a dire che è proprio per via delle suddette povertà, sciatteria e confusione che quella che in altre mani sarebbe quotidianità, nelle sue diventa la più desolante banalità. Si vedano, non bastassero i precedenti, questi pochi, ulteriori esempi: «Quel giorno Marco e Isabella si erano promessi tutto, tutto quello che due persone innamorate non ancora ventenni possono promettersi: “Non ci lasceremo mai, faremo un sacco di bambini, vivremo insieme a Parigi”. “Marco, se dovessi cadere e farmi male, tu saresti in grado di aiutarmi a rialzarmi, di prenderti cura di me?” “Sarò lì prima che tu cada per afferrarti in tempo”. Dopo qualche mese si erano lasciati». Nel transito tra l’ultima battuta di dialogo e la rottura tra i due ci sarebbe materia per interi universi, ma Volo la liquida così. (Agli ingenui che ipotizzassero una precisa volontà in questa secchezza, magari mettendola in rapporto con la fine più o meno brusca del fidanzamento, consigliamo di leggere ciò che precede). Il colpo di grazia arriva con la frase successiva: «Promettere è l’errore più facile da commettere quando si è felici». Siamo alle grandi verità della vita a misura d’epigramma (Volo, quando vuol essere sicuro che ai suoi lettori non sfugga la rilevanza del momento, scrive: Vita). Che è comunicazione, certo, ma non letteratura del quotidiano (né letteratura, d’altronde): il passo da qui allo slogan è drammaticamente breve. E micidiale, subito dopo, è l’accoppiata titolo/inizio del nuovo capitolo: a «Lucia la madre» (così, senza neanche la buona creanza d’una virgola) segue nella prima riga, casomai a qualcuno rischiassero di sfuggire il nome e il ruolo del personaggio: «La madre si chiamava Lucia». Qui, invece, siamo a un passo dalla superflua didascalia di un brutto fumetto.

In queste pagine non albergano zone d’ombra – quelle che garantirebbero l’opacità che contraddistingue un’opera d’arte –, ma non si rinviene neanche l’ombra della connotazione. C’è pura, semplice e banale descrizione. Tutto ciò porta a interrogarsi su chi siano e cosa cerchino in questo libro i lettori. I quali hanno, presumibilmente, un unico interesse: leggere una storia. Scritta come, non importa (ma importa: scritta da chi). Diciamo pure: non si spiegherebbero le tre edizioni in due anni e che il romanzo di Volo uscito da poco, È tutta vita, sia in classifica da settimane, se a questi lettori importasse alcunché dello stile o anche solo di una lingua che non tradisca quasi ogni elementare regola grammaticale. Allargando momentaneamente il campo, il quadro generale propone del resto numeri impietosi (li fornisce ISFOL su dati Ocse-PIAAC): relativamente alla comprensione di un testo, il 70% della popolazione italiana tra i 16 e i 65 anni non raggiunge il livello 3 PIAAC, considerato quello «minimo indispensabile per un positivo inserimento nelle dinamiche sociali, economiche e occupazionali»; ne discende che questo 70% è compreso tra il livello 2, 1 e quello che sta sotto all’1, che indica una «modestissima competenza, ai limiti dell’analfabetismo». E ancora: in media, nell’arco di 12 mesi il 55% degli italiani maggiori di 6 anni non legge neanche un libro (dati Istat) e quelli che ne leggono più di 3 sono meno del 20%: un terzo della popolazione legge quindi uno o due libri (non scolastici o per motivi professionali) all’anno. Chiariamo subito, per allontanare ogni ridicola interpretazione mistificatoria: si richiamano queste cifre per fornire uno sfondo complessivo, non per dare degli analfabeti a tutti i lettori di Volo. Ma è sulla scorta di queste stesse cifre, e di quelle di vendita dei suoi libri, che si può supporre – ché certezze non ve sono e non ve ne possono essere –  che una porzione ragguardevole dei suoi lettori vada individuata, appunto, tra quel 30% che legge uno o due libri all’anno. Fosse così, venendo a mancare un salutare raffronto con altre opere, si scorgerebbe forse l’origine della messe di commenti su internet secondo i quali Volo «scrive bene» o «benissimo».

E se a questo pubblico interessa leggere una storia (e non c’è niente di male) ed emozionarsi (ancor meno), se può tranquillamente prescindere da un giudizio di valore sull’opera e se per esso significa qualcosa il giudizio personale di gusto e basta (cosa lecita e legalissima), sorgono altri quesiti, a cui si può tentare di rispondere solo con il ricorso all’impressionismo. Stante la natura platealmente descrittiva de La strada verso casa, il riconoscimento di sé che garantirebbe sembra provenire da un qualche desiderio di rassicurazione e inclusione: «Parla di noi in ogni libro, in modo diretto, semplice, genuino. Pensa a quando nelle prime pagine del libro scrive del mozzicone di sigaretta gettato nel water, del fatto che non va giù, nemmeno se ci metti la carta. Ecco quelli di cui parla siamo noi, perché è successo a tutti» (http://www.ilfattoquotidiano.it/2013/11/06/bologna-in-fila-da-ore-per-la-presentazione-di-fabio-volo-i-suoi-libri-parlano-di-noi/768961/); «Questo libro rispecchia i pensieri e le esperienze adolescenziali dei ragazzi classe ’70/’80»; «Mio padre è mancato da poco e devo proprio dire che mi ci sono ritrovata in ciò che ha scritto»; «Le difficoltà dei rapporti tra genitori, figli, fratelli e coniugi: quanti momenti della “vita reale” sono magistralmente descritti in questo splendido libro!» (alcuni commenti postati sul sito Ibs; quelli postati su Amazon sono, in questo senso, anche più espliciti). Questo desiderio potrebbe guadagnare un elemento aggiuntivo di immensa fascinazione, poi, per il fatto che a occuparsi della quotidianità e a inabissarsi con tanta perizia nelle profondità dell’animo umano sia un personaggio famoso. Si accorciano le distanze, lo si sente vicino a sé, ma soprattutto ci si sente un po’ più vicini a lui: «Una storia profondamente commovente, che ci tocca in modo incredibilmente diretto: siamo tutti esseri mortali».

In conclusione, ciò che più importa, due proposte all’indirizzo dell’autore. Io, critico letterario, un suo romanzo l’ho letto e recensito esattamente come avrei fatto con qualunque altro romanzo, e almeno limitatamente a La strada verso casa posso parlare a ragion veduta: invito quindi Volo a un confronto pubblico in un luogo consono in cui si discuta specificamente del libro allo stesso modo in cui, da parte mia, ho fatto e farei in ogni occasione simile. Una presentazione, un incontro: non una sessione per concedere autografi e foto-ricordo (si legga la descrizione della “presentazione” nell’articolo de Il Fatto Quotidiano citato prima per capire a cosa mi riferisco). Entrambi porteremo i nostri argomenti: poi si vedrà.

La seconda proposta. Per venire considerato alla stregua di tutti i romanzieri così come richiede, Fabio Volo dovrebbe essersi comportato come qualsiasi aspirante autore. Lo scenario, per chi non lo sapesse, è questo: si invia un proprio manoscritto all’editore e si attende una risposta per un periodo compreso tra i 3 e i 9 mesi. Questo, quando l’editore è piccolo o medio, e quando è disposto a dare una risposta, la quale spesso però non arriva (i redattori sono pochi e hanno molto lavoro da sbrigare: semplicemente, non hanno tempo e risorse per replicare a tutti). L’eventualità che pubblichi con un grande editore un autore inedito che non abbia frequentato una scuola di scrittura particolarmente sotto i riflettori o che non abbia vinto o ricevuto menzione al Premio Calvino, non è irrealistica in assoluto: ma diciamo che non è la regola. Neanche lontanamente. Arduo immaginare Volo che, per il suo primo romanzo, invia per posta una copia alla Mondadori, accompagnandola con una scheda biografica in cui si presenta come un giovanotto lombardo con alcune esperienze di radio e tv, e attende il responso per mesi. Arduo anche immaginare la Mondadori che, tra le migliaia di manoscritti ricevuti, seleziona proprio quello di Volo, e solo per la sua indubitabile qualità. Se le cose fossero andate così, e non lo si può escludere, prontissimi a cospargerci il capo di cenere. Ma mettiamo che le cose non siano andate così. Mettiamo che la Mondadori, appena saputo che Volo aveva scritto un romanzo, abbia deciso di lanciarlo sul mercato, anche prescindendo dal suo valore estetico. Che abbia cavalcato la fama del personaggio. Ora, se Volo è convinto della bontà della sua arte, gli proponiamo di fare quanto segue: spedisca sotto pseudonimo un suo romanzo inedito alle case editrici, affiancandogli una biografia di fantasia che non riconduca a lui; aspetti i mesi necessari per una risposta (che potrebbe non giungere mai) e, se questa fosse positiva e il manoscritto si trasformasse in libro, si predisponga ad assistere e partecipare alla trafila editoriale come qualunque altro autore che, diversamente da lui, non è lo spot vivente di se stesso 24 ore su 24, 365 giorni all’anno: rappresentanti che cercano di piazzare il suo libro ai librai; eventuali recensioni sulla stampa; spostamenti a proprie spese per presentazioni in librerie qualunque, magari indipendenti, magari che non possono ospitare più 20 venti persone, magari organizzate in concomitanza con proposte più o meno affini (e che quindi magari vanno del tutto deserte). Naturalmente non tutti i bravi vengono pubblicati: il mondo editoriale è una macchina complessa e più ancora bizzarra e non dà sicurezze, ma queste sono dinamiche che si imparano standovi dentro. Lui dice che vende perché è bravo: questo sarebbe un metodo di una semplicità unica per dimostrarlo.

2. fine

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