Vincenzo Nuzzo
Il male di vivere degli adolescenti

La ribellione patologica

La sfida tra genitori e figli diventa sempre più spesso una battaglia tra la morale assoluta e la morale relativa. A far la differenza è la capacità di capire la differenza tra abitudini e patologia

Quanto tempo è passato negli ultimi tempi? Cioè dagli anni ’50 in poi. Bisogna chiederselo in modo davvero radicale (poeticamente, come nel corsivo). Ovvero avendo la netta percezione della «quantità qualitativa» del tempo trascorso, ma anche della sua delimitazione cronologica in senso concretamente «quantitativo». Proprio entro quest’ultima, bisogna allora dire che nei fatti è passata davvero un’immensità di tempo. Così che la distanza tra le successive generazioni è andata essa stessa progressivamente crescendo e dilatandosi. E in maniera esponenziale. Viceversa, nel passato essa restava costantemente costante. Con la conseguenza che tra la generazione dei sessantenni e quella degli attuali adolescenti sussiste ormai un vero e proprio in sé invalicabile abisso. Cosa poi evidente quando il sessantenne esercitante una professione di aiuto (che pone a diretto ed immediato contatto con fenomeni psicologici di ampiezza sociale, e quindi culturali) si ritrova anche nella posizione di chi è chiamato a riflettere. È ciò che accade insomma a chi (come il sottoscritto) si trova oggi nella condizione simultanea di «medico-psicoterapeuta» da un lato e di «filosofo» dall’altro.

Orbene, ciò che nei fatti si verifica oggi nel mondo reca a dover intendere la condizione del medico-psicoterapeuta (colui che è chiamato ad una risposta tecnica, o «intellettuale pratico») come quella che può e deve obbligatoriamente muoversi insieme al mutamento dei tempi. Mentre la condizione del pensatore (colui che è chiamato ad una risposta riflessiva, o «intellettuale teoretico») può e deve essere intesa come quella che non sottostà a tale obbligo. È ovvio però che stiamo qui parlando in forza della premessa secondo la quale possa davvero esistere una filosofia definibile in assoluto (e quindi non storicamente). Se invece la rigettiamo, allora la filosofia si mostrerà come pienamente soggetta all’obbligo al quale è soggetta anche la condizione dell’intellettuale pratico. Anzi, costituendo essa il fondamento delle scienze, assumerà rispetto ad essa una posizione ancora più radicale. Ed avremo così di fatto quella moderna Filosofia che è al passo con il Zeitgeist nel modo più integrale e radicale possibile. Fino al punto di costituire una continua e crescente sfida al buon senso umano («avanguardia»).

Ebbene tutto ciò è di importanza davvero capitale nel contesto del fenomeno di interesse pedagogico-psicologico costituito dall’uso delle nuovissime tecnologie della comunicazione da parte degli adolescenti. In particolare mi riferisco all’uso di tali tecnologie per porre in atto comportamenti i quali, concernendo esperienze amorose e sessuali, configurano giocoforza una zona grigia dovuta al fatto che il polo della normalità e quello della patologia e del crimine sono legati da un continuum sulla cui linea è davvero difficile marcare punti di divisione. Dico questo dopo decine e decine di colloqui con genitori e relativi figli adolescenti – specie ragazze, ed a partire più o meno dall’età di 12-13 anni. Colloqui sempre estremamente drammatici. Perché in essi emerge lo sconcerto degli uni (genitori) ed il dispetto degli altri (figli). Altrettanto disperati entrambi!  Quello dei genitori per la percezione netta dell’offesa arrecata dai figli a un codice morale assoluto in positivo, cioè nel senso di un’affermazione che istituisce limiti (ed incentrata nel «non fare!»). E quello dei figli per la percezione netta dell’offesa arrecata dai genitori a un codice morale assoluto in negativo, cioè nel senso di un’affermazione che abolisce limiti. Incentrata dunque nel motto: «Fallo perché è normale! In quanto è collettivamente praticato e condiviso».

Il primo è davvero un codice assoluto (pienamente affermativo), mentre il secondo è invece un codice assoluto solo e soltanto poiché è relativo (esso condiziona l’affermazione alla negazione costituita dall’abolizione di limiti).

Orbene, qui il medico-psicoterapeuta intercetta fatalmente quelle che costituiscono le regole deontologiche (morale tecnica) a loro volta strettamente legate al dover assolutamente stare al passo con i tempi. Esse impongono infatti di dare un giudizio (tecnico) sul comportamento normalizzato dalla prassi che non solo non sia censorio, ma che anche abolisca ogni censura. Solo così si potrà nei fatti suggerire ai genitori una condotta pratica con i loro figli che non li renda perdenti (nel confronto con la ribellione) ed anche condannabili (secondo il vigente Zeitgeist). Cosa invece impossibile se essi si rifanno al codice morale assoluto, e non a quello relativo (quello vigente storicamente quale recentissima attualità, ovvero stato delle cose). Infatti, qualunque risposta che manchi di porsi in sintonia con quest’ultima, genererà nell’educando (figlio) una ribellione del tutto legittima e potentissima. In quanto richiamantesi all’obbligo di rispetto di quella che è una prassi condivisa e consolidata. Parlo qui in particolare della tendenza di ragazzi e ragazze a entrare in rapporto tra loro (per mezzo di  «chat») anche attraverso discorsi ed immagini piuttosto espliciti sessualmente (e ciò peraltro in linea con i simboli proprio della cultura visiva giovanile, specie musicale). Salvo naturalmente i casi che rientrano decisamente nel crimine (pedofilia, prostituzione…) o nella patologia (esibizionismo, violenza…). Casi che però, come ho detto, non possono (per mandato espresso della cultura dominante) essere nettamente separati da quella che è ormai considerata la «normalità». Ma la ribellione legittima e possente dell’adolescente potrà poi oggettivamente assumere le forme francamente patologiche dell’identificazione depressiva con l’immagine negativa di sé (presso le ragazze la ben nota «bad girl»). Rischio che il tecnico ha il dovere di evitare assolutamente!

Ebbene, alla morale relativa (e negativa) è pertanto strettamente vincolato proprio il medico-psicoterapeuta. Che quindi commetterà un vero errore professionale se si appellerà invece a quella morale assoluta (e affermativa) che abbiamo visto sfuggire completamente all’obbligo di essere strenuamente storica (nel senso dell’attualità). Il genitore può avvertire palpabilmente l’attenersi di fatto di tutti i professionisti a questa regola non scritta. Accade nella formula standard con la quale essi accolgono la loro disperazione: «Colgo la sua preoccupazione…!». È la dichiarazione preventiva della neutralità del tecnico, e quindi il suo mettere rigorosamente le mani avanti rispetto al rischio che i genitori pretendano di averlo dalla loro parte nel sottomettere l’educando (qui eventuale paziente, ma solo illegittimamente) alla morale assoluta. Il che significa poi che, in casi come questi, di regola proprio i genitori dovranno rassegnarsi a diventare essi stessi i pazienti. Pazienti di una sorta di davvero strana «cura» di tipo culturale (storicista e fatticista).

Ecco tutto. La posizione rispetto a tutto questo del nostro ideale filosofo-in-assoluto può riassumersi esattamente nel discorso che io stesso ho qui svolto finora, in qualità appunto di pensatore e nello stesso tempo tecnico della psicologia e dell’educazione. Un discorso in cui io stesso richiamo me stesso, quale filosofo, alle cogenti responsabilità del tecnico. Non però senza rammarico e cordoglio. Perché il generale principio e criterio del relativo, al quale qui bisogna sottomettersi, equivale di fatto perfettamente a quel fattore che sta oggi scardinando la società e la civiltà nel senso della disintegrazione. Disintegrazione che è atomizzazione ex-plosiva (big-bang) rispetto ad un ideale baricentro che funga anche da immobile centro gravitazionale. Cosa impossibile senza affermare la cogenza di uno stabile Assoluto.

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