Alberto Fraccacreta
L'elzeviro secco

Elogio della poesia

La poesia non ti mette addosso, come un morbo infetto, una cancrena, la smania di pub­blicare. Se pubblichi un libro ogni dieci anni, fai come Montale. E, fidati, fai bene

Scelgo la poesia tra tutte le occupazioni, perché non ruba il tempo destinato ad altri, ma lo po­tenzia. La poesia è così: non libri inzaccherati da esplorare nella penombra di un lumino a olio; quella è la filo­lo­gia. Non pagine su pagine da scribacchiare, ché se non le scrivi ti viene da di­re: «Forse sto fallendo»; quello è il romanzo. Non citazioni di chi è stato più bravo di te, da con­­trollare sinotticamente, o scartafacci da mettere in riga, sennò la ricerca diventa vana; quello è il sag­gio breve. Non poderose disquisizioni di gangli razionalizzanti, ché se c’è u­na falla con­cet­tuale Aristo­tele, l’ipse dixit, si inal­bera; quella è la filosofia.

Scelgo la poesia perché rende libero e diverso. Dà la parola che è solo tua, anche se discutibile. È la tua opinione sulle cose, è il tuo amore per le cose. E non è riducibile ad uno schema o ad un sillogismo. Si divincola da ogni forza che tende a racchiuderla nella prigionia di un concetto.

La poesia è più di un qualcosa di tascabile: la puoi portare nel cranio (che non ha spese di spedizione, batterie da ricaricare), ogni giorno, in ogni luo­go. È breve, concisa e non si dilunga in dissertazioni oblunghe. Puoi farci una famiglia con la poesia, anzi è consigliato farci una fami­glia. Lo dice an­­che il medico. «Mi raccomando, per almeno cinquant’anni una poesia dopo i pa­sti». Quando hai tuo fi­glio in brac­cio, non sei in obbligo di sussur­rare a tua mo­glie, con il volto scuro: «Teso­ro, tienilo un po’ tu… devo andare a isolarmi nell’arte, a lavo­rare». Non sa­rai un’as­sen­za che cammina. Il tuo la­voro è lì, il tuo lavoro è tuo figlio.

Scelgo la poesia perché l’unica fonte di conoscenza che essa richiede senza indugio, è la vi­ta stessa. E non tenta di modificarla ideologicamente, ma la lascia essere com’è. La accetta per quella che è e la perdona del dolore che fa soffrire, dolore che si tramuta presto nell’altro volto della felicità.

Scelgo la poesia perché non è una sottrazione, ma una moltiplicazione di voci, di persone, di ricordi.

Scelgo la poesia perché non devi perseguire prove asfissianti come a teatro, non devi es­sere così o colì per mano del regista sapiente, controllare il corpo come una macchi­net­ta cibernetica, imparare che se non impari «Guai a te, marrano». Non devi stare sul chi vi­ve per il dik­tat di qualche artista neoimperialista, né essere un genio assoluto – o sof­frire di non esserlo – per scrivere uno straccio di verso sensato. Non devi. Non hai imposi­zioni. Tut­te le arti hanno una dignità, il più delle volte un’altissima dignità; e la confe­ri­scono a chi ha il coraggio di praticarle: ma la poesia, io credo, le comprende tutte. E per­met­te anche di essere pigro.

La poesia è una donna che si fida ciecamente del tuo essere altrove e ti lascia tranquillo: non si prende tutto il tuo tempo. Non affolla la tua esistenza.

Scelgo la poesia perché non colma d’invidia per le altrui ‘opere’, ma di ammirazione.

Scelgo la poesia perché se un verso non è mio, ma di un altro lo sento più a fondo e mi sembra infinitamen­te più bello.

La poesia non ti mette addosso, come un morbo infetto, una cancrena, la smania di pub­blicare. Se pubblichi un libro ogni dieci anni, fai come Montale. E, fidati, fai bene.

Scelgo la poesia perché non devi vivere ramingo, nell’eccesso dei concerti e del tenere botta, nella fatica peristaltica della “prima”, nel­la distanza inelut­tabile degli affetti. Sono radicato, posso essere radicato. L’attenzione è per gli uscî, le foglie dell’a­can­to o dello scotano, per il paesaggio ingrommato, gli scuri e le verande, le labbra affilate, quanto vi è di più picco­lo e a prima vista insignificante. E soprattutto gratuito. Non per l’informe e il narcotizzante, per lo spettacolare e il mondiale.

Scelgo la poesia perché, se fa amare, fa amare soltanto per amore. È disinteressata, è il contenuto stesso del disinteresse, chiaro, fluttuante nell’aria, ché se non nasce nel disinteresse e nel dono, in fin dei conti non è poesia.

Scelgo la poesia perché se mai avrò una moglie sarà per lei, per gli occhi e le mani che ho rubato come un ladro di tremori, non nell’idealità o nella nullità del pensiero, ma nella presen­zialità della vera real­tà. Sarà la destina­zione ultima di trascen­denza, il volto sognato e vissu­to, il sor­ri­so del pellegrino a lungo contemplato. Sarà come la verità.

La poesia, se saprò guardarla bene, non mi allontanerà certo da lei: mi per­metterà, invece, di com­pren­derla an­cor di più nell’alveo del suo mistero essenziale.

Scelgo la poesia perché è l’unico modo che ho di parlare confidenzialmente con l’Altro, di ringraziarlo con la purezza e l’occhio sgombro del primo istante, di chiedergli – ora e per sempre – perdono.

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