Nicola Bottiglieri
Un brandello di vita vissuta

Le ceneri di Armando

«L’agenzia del Comune incaricata del funerale ci aveva detto che avremmo ricevuto una telefonata per sapere in quale giorno saremmo dovuti andare a ritirare le ceneri»

Il 21 novembre, sabato, alle ore 21.20 è morto il padre di mia moglie all’età di 85 anni. Era all’ospedale Grassi di Ostia, ricoverato da un paio di settimane a seguito di una infezione procurata dopo l’operazione per la rottura dell’anca, causa una caduta ai primi di agosto.Il suo calvario era cominciato cinque anni prima, quando giocando con il nipote in pineta, era caduto ed aveva battuto la testa. Un grumo di sangue gli aveva bloccato una vena, perciò fu operato, ma gli venne l’epilessia, causa di ulteriori aggravamenti, altre cadute, medicine, dosaggi di medicine, ricoveri, paure e speranze. Le cadute, quindi, sono state il filo conduttore degli ultimi anni, l’impatto violento e traditore con la terra che all’improvviso diventa tua nemica. Eppure, anche se figlio di contadini veneti, la sua vita era svolta sempre in aria, perché aveva lavorato con l’Alitalia, facendo gli impianti elettrici in diverse parti del mondo, dove la nostra compagnia di bandiera faceva scalo. E di questa vita vagabonda la sua casa conserva tracce, avendo una moglie spagnola, una figlia inglese, un figlio italiano, mille gingilli, ricordi ed amici sparsi per il mondo.

Perciò, quando il martedì 24 novembre gli abbiamo fatto i funerali nella Chiesa di Santa Monica, mi chiedevo dove fosse andata tutta quella parte di mondo che aveva conosciuto, come facessero ad entrare nella bara Singapore, La Avana, la Galizia, gli Stati Uniti, Buenos Aires, Lima ed il Guatemala e poi i ricordi di suo padre che era stato in Cina, nella colonia italiana di Tien Tsin ed era rientrato in Italia su una nave, di nascosto, avvolto in un materasso. Tutta quella parte di mondo c’era e non c’era nella bara, come lui del resto che era ancora fra noi, ma non c’era piùdavvero.

Il prete fece una predica breve e intensa. Disse che il ricordo è quello che mantiene in vita fra noi i defunti e di queste parole gliene sono grato, perché è quello che penso anche io!

Dopo la cerimonia, la macchina fuggì via verso Prima Porta, perché è lì dove bruciano i cadaveri, in quanto il suo desiderio era quello di essere cremato. Lo aveva accompagnato il fratello, mentre noi ritornavamo a casa sua e subito, appena entrati, cominciammo a sentire la pesantezza del vuoto e l’eco delle nostre parole che in quel vuoto annaspavano.

L’agenzia del Comune incaricata del funerale ci aveva detto che avremmo ricevuto una telefonata per sapere in quale giorno saremmo dovuti andare a ritirare le ceneri. E così il 9 dicembre, alle 8 del mattino io e mia moglie ci siamo messi sul raccordo anulare per andare a Prima Porta, dove dovevamo stare alle 9.30, ora in cui consegnavano le ceneri.

«Prendi una borsa, avevo detto. Una borsa resistente per portare l’urna. Non possiamo tenerla in braccia tutto il viaggio».

Mia moglie non aveva trovato di meglio che una borsa della spesa, marca Conad, quelle aperte, resistenti, di plastica dura che fanno risparmiare i centesimi delle buste di plastica.

C’era traffico alle otto del mattino, cosìdopo un’ora eravamo al cimitero di Prima Porta e subito ci siamo persi fra tombe e giardini. Una ragazza rumena che vendeva fiori, ci aveva dato delle indicazioni che risultarono insufficienti, perciò dissi a mia moglie di seguire i cartelli che indicavano il Crematorio e lì chiedere agli impiegati. Dopo dieci minuti di curve e di soste, siamo arrivati al crematorio che era deserto, ma cosparso di una polvere bianca e sottile come farina di calce sparsa nell’aria. Dall’interno del fabbricato un rumore di motore intenso e cupo, come quello delle caldaie che bruciano il cherosene. Avevo notato la lapide con su scritto «Giardino dei ricordi», dove si potevano spargere le ceneri del defunto ed avevo chiesto a mia moglie perché avevano deciso di tenerle a casa.«L’Agenzia ci ha chiesto se volevamo tenerle a casa oppure spargerle al Verano o a Prima Porta e mia madre ha detto che voleva portarle a casa. Dovevamo decidere subito, su due piedi, in pochi secondi… avevano fretta!».

«Però una donna sola, molto anziana, con le ceneri in casa, in un momento di sconforto…può succedere di tutto», dico io.

Nel deserto del crematorio ho scorto un operaio cosparso di polvere bianca che usciva da una porta ed entrava in un’altra ed ho chiesto dell’Ufficio consegne, ci ha indicato un luogo lontano, dove siamo arrivati dopo qualche tempo.

Gli uffici dell’AMA addetta ai cimiteri hanno lo stesso stile degli uffici giardini, immondizia o altre attività dell’azienda comunale: pochi mobili trasandati, pareti bianche segnate dall’incuria, impiegati che parlano fra loro a voce alta. Siamo entrati, abbiamo preso il numero e ci siamo seduti in attesa del turno. Ho notato una scaffale per la posta, su un riquadro vi era scritto «Urgente: sversamento liquidi organici»a pennarello, ma non vi erano carte che indicassero l’urgenza. Quando siamo andati alla «postazione n°7», l’impiegata ha fatto firmare dei fogli a mia moglie con i quali siamo andati nell’ufficio consegna ceneri.

Era una stanzetta trasandata, con un tavolo, qualche straccio, un manico di scopa e uno sportello a vetri. Niente crocifissi o poster alle pareti. Abbiamo consegnato il foglio all’impiegato e nell’attesa avevo notato che una coppia di anziani avvolgevano la loro urna in un foglio di carta rossa e la mettevano in una borsa per la spesa uguale alla mia, ma non della marca Conad. All’improvviso è comparso l’impiegato con l’urna, di metallo. Ha forma di cilindro bombato nel mezzo, la parte superiore si puòsvitare, con una grande etichetta con nome e cognome anno di nascita e di morte e un manico di sottile filo metallico.«Vedete, dice l’impiegato, indicando un numero scritto a pennarello indelebile sul coperchio, vedete il numero, corrisponde a quello del foglio. Controllate il nome e cognome».

Mia moglie verifica, io prendo l’urna di metallo alta circa 40-50 centimetri e valuto che puòpesare, ceneri e metallo, almeno quattro chili e la colloco nel borsone di plastica.«Nell’interno vi è un contenitore con le ceneri. È sigillato, non dovete aprirlo. Giuridicamente, questo è un corpo umano!».

Usciamo e ci dirigiamo verso la macchina, mia moglie dice: «E ora portiamo a casa a papà!». Seduti in macchina, lei alla guida ed io al posto del passeggero, metto la borsa fra le gambe, perché a tenerla dietro, ad ogni curva può rotolare sul sedile.«Tirala fuori, che gli faccio una foto da mandare a mio fratello».

Tiro fuori l’urna, la poggio sulle ginocchia, mia moglie scatta una foto e con WhatsApp la manda al fratello con la frase «Ecco il nostro caro estinto». Da Venezia subito risponde, «Credevo fosse più grande». Rimetto l’urna nel borsone e si parte. Arrivati sul raccordo, arriva una telefonata dalla banca che vuole una firma per la successione e la vuole subito, perciòdecidiamo di passare prima dalla banca e poi andare verso casa.

A Ostia il traffico è caotico, riusciamo a parcheggiare a stento davanti l’Ufficio Postale, mia moglie mi chiede «Tu non vieni?». «Resto qui. Se ci rubano la macchina o la porta via il carro attrezzi con l’urna dentro, finiamo sui giornali».

Sono solo con l’urna e, causa la stanchezza, lo stresso ed il caldo mi addormento. Nelle orecchie mi risuonano le parole di Armando quando andava a Cuba con l’Alitalia e lo ricevevano come un re e dopo il lavoro, in spiaggia a mangiare pesce, fumare qualche sigaro, sentire musica. Oppure le volte che aveva collaborato alla partenza del papa Giovanni Paolo per i suoi viaggi…O quando aveva lavorato con la compagnia di Lauda…Tutto quel tempo è finito…Tutto è finito…A volte vado in pineta e guardo tante cose belle del mondo e mi chiedo perché devo lasciarle, perché dobbiamo lasciare questo mondo?

Poi lo rivedo sul letto dell’ospedale, senza forze, senza voce, pieno di tubi ed io che non so che dire…Già che si può dire ad un malato in fase terminale? Che si puòdire ad un uomo che giace su un letto da mesi che non riesce nemmeno ad ingoiare un sorso d’acqua? Solo baciarlo, ed io un bacio glielo ho dato. Un bacio colpevole, che nascondeva la distanza.

Ripartiamo verso casa, saliamo le scale con il borsone prezioso, apriamo la porta, ci viene incontro la moglie, tiro fuori l’urna: «Ti ho riportato Armando». La moglie guarda e dice: «È cosìgrande?». «Certo, papàera alto»e ride della sua battuta mia moglie.Io chiedo: «Dove la mettiamo?».«Avevo pensato qui, sopra il televisore, c’èlo scaffale con il vetro…». Prende l’urna, fa scorrere il vetro, fa spazio fra libri e oggetti di casa: «Ecco, qui sta bene».

Poi mi chiede: «Vuoi un caffè?»

«Sì, grazie. Ne ho proprio bisogno».

«Non facciamo tardi, dice mia moglie, devo fare ancora la spesa. Oggi voglio comprare il pesce, un piatto di spaghetti alle vongole per tutta la famiglia!».

Mentre bevo il caffè, vedo le foto di Armando giovane, al matrimonio, con i figli ed i nipoti, poi i lavori del padre, che dopo la guerra del 15/18 raccoglieva i bossoli dei proiettili di cannone e ne faceva piatti, porta ombrelli, fioriere. Poi l’urna appena arrivata, posta di fronte alla sua poltrona, dalla quale guardava la televisione. È tardi, il negozio del pesce può chiudere da un momento all’altro.

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