Pasquale Di Palmo
“Soffiati via” di Vito M. Bonito

Il dolore innocente

L’infanzia e la morte sono al centro della nuova raccolta del poeta che indica come riferimenti Celan, Herzog, Kantor e Beckett. Un atto poetico versatile il suo, estraneo alle tendenze e al solco della tradizione, dove non trova posto la speranza

Mi è capitato, leggendo l’ultima raccolta poetica di Vito M. Bonito Soffiati via (Il Ponte del Sale, 120 pagine, 15 euro), di pensare all’infanzia che viene sempre più abbruttita, umiliata, degradata e la cui condizione può essere ben rappresentata dalla foto, diventata celebre, di Aylan, il bambino di tre anni annegato sulla spiaggia di Bodrum, in Turchia, nel tentativo di approdare a un mondo migliore. L’infanzia, infatti, è quanto mai presente nell’economia del libro, configurandosi come un leitmotiv oltremodo tragico («la nostra vita è un respiro olocausto» recita un verso), con implicazioni che si rifanno a una realtà storica che penalizza gli aspetti che dovrebbero invece caratterizzarla (gioia, innocenza, naturalezza, senso della scoperta ecc.). Ciò è evidente soprattutto nella sezione inaugurale della raccolta, luce eterna, in cui l’infanzia è collegata, in maniera inestricabile, ai temi della morte e della deriva, dell’abiezione e della menzogna: «la mia infanzia fu triste/ come un sudario // allora mi sposerò per avere/ molti bambini // vedi quella foto? // è iddio/ quando sono morta»; «uno dei miei bambini/ si è ucciso senza ragione // ovvero da qualche parte/ senza ragione/ la luce ha trovato più spazio». D’altronde, lo stesso autore, nella raccolta Fioritura del sangue (Giulio Perrone Editore, 2009), aveva significativamente osservato: «La lingua poetica è il dolore innocente».

Come si evince dalla succitata manciata di versi proposti, i temi affrontati da Bonito sono di matrice espressionistica e nulla concedono sul versante stilistico, approdando anzi a una sorta di esibita sprezzatura. È un procedere che, sotto certi aspetti, può ricordare quello di Celan o dell’ultimo Artaud – un’analoga pulsione radicale ad affrontare tematiche violente e blasfeme – con sequenze che fanno ricorso a calembours e onomatopee. Ma, a differenza dell’autore francese in cui tale tipo di sprezzatura era connaturata al suo stesso periodare, in Bonito tale procedimento avviene in maniera più consapevole e, conseguentemente, più distaccata.

Vito BonitoIl dettato di Bonito ha cadenze quanto mai peculiari, procedendo per frammenti quasi rabbiosi che non di rado, come nella sezione intitolata sì dolce è il tormento acquisiscono cadenze aforistiche, creando effetti allucinati e stranianti: «ogni secondo tremila stelle/ si uccidono»; «io non so misurare la pausa/ tra il rumore della mente/ e il suo orrore». Ma, al di là del modello aforistico, si tratta di esiti contrassegnati da un cripticismo di taglio oracolare dalla spiccata ambivalenza, non solo sintattica, che sembra talvolta affondare le proprie radici «dentro il fuoco» della contemporaneità, persino nei casi più efferati di cronaca nera: «due/ uccidere/ volevo uccidere/ bambini/ due // poi // nessuno soffrire/ ho detto/ uno allora ucciso/ uno».

Già Niva Lorenzini aveva osservato, a proposito dei versi di Bonito: «Non è facile fissare coordinate per questa poesia così estranea alle tendenze, antilirica e insieme capace di filtrare sino all’essenza il racconto spoglio di un accadere traumatico, ove anche la morte trova spazio tra le vicende quotidiane dell’esserci». E non è un caso che la morte, in questa poesia dai forti contrasti, faccia da contraltare al tema dell’infanzia, riverberandosi come un fil rouge in tutte le sezioni della raccolta.

Le collane di frammenti che ci propone Bonito sembrano haiku o tanka giapponesi svuotati di qualsiasi riferimento agli elementi naturali o in cui questi ultimi hanno perduto qualsivoglia anelito alla levità, alla leggerezza: «l’albero ha mangiato il cuore // nessun animale/ ha voluto avvicinarsi // l’albero si è spento». Non per niente la Lorenzini parlava di «una carica conflittuale tra coagularsi della forma e suo sciogliersi in dissolvenza, tra corporeo e incorporeo», aggiungendo che tale «gioco dei contrari coinvolge la zona celata e “dissimulata” di un privato sentire che non ama esporsi, affidarsi al “varco delle parole”».

cop BonitoI riferimenti di Bonito sono da ricercarsi in una dimensione che poco ha da spartire con la nostra tradizione otto/novecentesca – con eccezione forse del fanciullino di pascoliana memoria, anche se riformulato in una prospettiva pressoché rovesciata –, come lasciano presagire le epigrafi riportate all’interno della raccolta che testimoniano la versatilità da cui prende spunto quest’atto poetico: Paul Celan, Werner Herzog, Tadeusz Kantor, Samuel Beckett. Solo l’exemplum di Giovanni Giudici («mai fu stella al suo spegnersi più pura»), con un’eco dantesca, introduce alla sezione più breve della raccolta, felicità coniugale, che si chiude emblematicamente con queste parole: «oh mio sogno fetale // unica mia/ porta fecale». A questi nomi potremmo aggiungere quello di Thomas Bernhard per quella sorta di digressione monocorde intorno agli stessi argomenti che caratterizza la sua prosa, come se l’atto stesso di scrivere non fosse che il tentativo di esorcizzare ciò che non è possibile esorcizzare.

D’altronde lo stesso autore avverte: «io sono vivo perché/ c’ho il fuoco dentro la testa» mentre «si fanno le convulsioni // nei reni che iddio/ dentro ci sfiata». Non trapela alcuno spiraglio di luce da queste pagine e l’ironia, quando prende il sopravvento, ha risvolti amari, incidendosi come una cicatrice nel tessuto vivo di una scrittura che sembra sottrarsi a qualsiasi catarsi: «iddio mi ha ordinato/ di seppellirmi // vivo/ e di non morire». Il tema stesso di un «dio» dai connotati troppo umani («zero è il nostro iddio»; «iddio credetemi è un forno»), a cui è stata abolita finanche l’iniziale in maiuscolo, rinvia al conflitto istituito con l’idea della divinità che aveva contrassegnato l’opera di alcuni maudits come Sade, Lautréamont, lo stesso Artaud, Genet.

Il testo conclusivo della raccolta, nella sua disarmante stringatezza, sembra il disumano referto tratto da qualche quotidiano o notiziario televisivo che metta a nudo tutto l’orrore del nostro tempo:

non ho mai dato un bacio

 ho nove anni

 domani mi bruciano

 viva

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