Nicola Bottiglieri
Pensieri (bui) in margine al terrorismo

Estetica del suicidio

Da Mishima a Jan Palach, dal giovane Werther a Pavese, dai martiri ai kamikaze: quale inversione di senso spinge certi individui a usare uno strumento di vita come strumento di morte?

Sto seguendo i drammatici avvenimenti di Parigi da una postazione privilegiata, inoltre godo di uno strumento sofisticato per analizzarli, infine ricevo soffiate segrete da una fonte autorevole che mi guida sulla giusta comprensione degli eventi. La postazione privilegiata è il divano di casa mia davanti la televisione, la strumentazione sofisticata  è il mio pc e la gola profonda che mi da le notizie riservate è il giornale che compro un giorno si ed un giorno no, per non fare troppa carta in giro per casa. I fatti di Parigi (e più in generale tutti i fenomeni del terrorismo che si ispira alla religione mussulmana) sono stati analizzati fino ad ora da diversi punti di vista: sociologico (i terroristi sono giovani emarginati delle periferie) politico(sono pedine della lotta fra sciiti e sunniti, complice la Turchia) religioso (sono fanatici estremisti) militare (gli in Francia vogliono alleggerire la pressione militare in Siria), storico ( gli attentati sono una risposta allo storico colonialismo francese ed europeo), epocale (sono arrivati attraverso i migranti) ecc. ecc. poco spazio è stato dato ad un aspetto fondamentale: il suicidio come preghiera. Questo aspetto è sotto gli occhi di tutti, ma sembra che nessuno vi faccia caso, eccetto gli esperti militari che ne valutano la devastante portata. Non sono un esperto militare, perciò voglio riflettere solo sulla dimensione culturale di questa forma di suicidio.

C’è subito da dire che il terrorismo del secolo XX, l’IRA in Irlanda, l’ETA nei paesi Baschi, i montoneros in Argentina, comprese le BR uccidevano cercando di fare il maggior danno possibile all’avversario ma dopo l’attentato era d’obbligo mettersi in salvo. La fuga del terrorista era importante quanto l’attentato. Se veniva preso, infatti, sotto tortura poteva rivelare i segreti dell’organizzazione, allo stesso tempo bruciare un quadro che aveva già fatto un attentato significava perdere un elemento carico d’esperienza. Al contrario, noi qui assistiamo allo sciupio di carne umana. I terroristi dell’ IS hanno come fine il suicidio, simile alle falene che sono attratte dalla luce della lampada e quando si precipitano sopra, muoiono bruciate. Nessun problema nella sostituzione dei quadri, tanto nelle periferie delle grandi città la fila degli aspiranti al martirio è folta, ed il fascino del suicidio mistico è inappagabile.

Ora il pensiero corre subito ai kamikaze giapponesi come paragone delittuoso. A ben vedere sono realtà molto diverse: fu un fenomeno limitato ad un momento della guerra del Giappone contro gli Stati Uniti, che in effetti si esaurì con la fine della guerra stessa,senza contare che i piloti kamikaze erano militari, capaci di guidare un aereo. Insomma non erano disperate bombe umane. Al contrario, i giovani suicidi dei quali ci stiamo occupando sono persone normali (anche se hanno subito un frettoloso corso di addestramento) e non guidano aerei ma usano come arma il proprio corpo. Che spesso è l’unica cosa che possiedono.

Nel 2001 l’abbattimento delle Torri gemelle fu possibile perché aerei civili ingannarono i sistemi di difesa e furono usati come armi da guerra. I terroristi che si fanno esplodere  adottano la stessa inversione di senso: usano il proprio corpo destinato alla vita come arma destinata alla morte. La vitalità del corpo giovane non viene sfruttata per procreare, correre, lavorare, ecc. ma per uccidere ed uccidersi, facendo “esplodere” la propria vita con la morte altrui, il dare e l’avere, l’odio e l’amore, il vicino ed il lontano, il domestico ed il selvaggio.

Infatti, questo successo il 21 maggio 1991, la prima volta che vedemmo un attentato fatto con una cintura esplosiva. Quel giorno Thenmuli Rajaratnam, facente parte delle Tigri del Tamil,vestita con abiti normali, si avvicinò a Rajiv Gandhi in campagna elettorale a Sriperumbudur, nel Tamil Nadu, vicino lo stato di Kerala, gli offrì una corona di fiori mettendogliela al collo, poi si chinò per baciargli i piedi e azionò la cintura esplosiva posta dietro le reni. Questo fu il primo esempio di come il terrore sia possibile cambiando di segno alle azioni, al proprio corpo.

Tuttavia la domanda ancora più inquietnte è questa, perchè questi giovani vogliono suicidarsi? Perchè non vogliono correre verso il futuro ma decidono arrestarsi ad un certo punto? Insomma, perché invertono di segno il cammino della propria vita?

Ogni generazione ha elaborato una propria forma di suicidio: Jacopo Ortis di Foscolo, il giovane Werther di Goethe, i tentativi di morte di Baudelaire e poi ancora Walter Benjamin, Cesare Pavese, Ernest Hemingway ma anche Mishima in Giappone, il suicidio è sempre stato una forma di protesta contro la società, una forma di rivolta contro il male di vivere. E tuttavia se nel mondo occidentale contemporaneo l’idea del suicidio matura all’interno della condizione post-moderna (morte di Dio, egocentrismo assoluto, prevalenza della finanza sulla politica, della tecnologia sull’uomo, ecc.) ossia la voglia di morte nasce dallo sfinimento della vita umana, oramai ridotta a puro consumo, a puro edonismo, a corpo/carne da soddisfare, attraverso il cibo, il lusso, la pornografia, ecc. ecc. quello che fanno i nostri terroristi è una forma di lotta contro la società senza Dio, oramai senza valori  spirituali, rappresentata dalla Francia (ma non solo) che tollera pubblicazioni di giornali come Charlie Hebdo!

Il suicidio dei nostri terroristi si presenta  quindi innanzitutto un fatto morale. Non voglio più vivere in questo mondo che non riconosco, non mi accetta, mi vede estraneo. Perciò mi uccido e lo uccido, mi esplodo e lo faccio esplodere, perché è lui la causa del mio disagio. Se è facile capire le ragioni del suicidio mistico, più complesso è riflettere sulle forme in cui si attua. Questa forma contiene due aspetti, uno non-violento, l’altro appunto tragico.

Uccidere se stessi per richiamare l’attenzione è una forma di lotta non violenta. È la lotta dei deboli, che non hanno altre armi per “farsi sentire”. È quella che usano i detenuti quando si tagliano le braccia, si cuciono la bocca, oppure come facevano i bonzi si davano fuoco per protestare contro la guerra in Vietnam. L’altro aspetto, invece, è quello più tragico, fare esplodere il proprio corpo. E qui entrano in campo potenti forze simboliche, che riescono a soggiogare la mente dei giovani tanto da far considerare questa uscita dalla vita, la scorciatoia più rapida per andare in paradiso.

Il primo aspetto simbolico riguarda l’arma del terrorista, ossia la cintura di fuoco. Per cintura di fuoco i geologi intendono la cintura dei vulcani che copre la Polinesia, le Filippine, la Nuova Zelanda, l’Indonesia, il Giappone e comprende il 75 % dei vulcani attivi della terra.Questo è il luogo di potenti terremoti, di violenti tsunami, di catastrofiche inondazioni. Per gli astronomi invece la cintura di Venere è la fascia rosata che si dipana ad arco sull’orizzonte, prima dell’alba o del tramonto. Più semplicemente, la cintura degli uomini è una striscia di cuoio che come la cravatta “stringe” i vestiti al corpo. Abbigliamenti questi che nel mondo arabo sono poco usati, preferendo il vestito a camice lungo fino ai piedi. Un esempio delle cinture che stringono si ritrova nei quadri di Botero, dove il corpo flaccido, attraverso la compressione della cinghia, della cravatta o dell’anello acquista una vitalità insperata. Inoltre, dice il maestro dell’erotismo cinematografico Tinto Bras, stringere un braccio o una gamba con una striscia di cuoio significa erotizzare quella parte del corpo. E sul rapporto fra eros e thanatos molto si è detto nel XX secolo.

Anche sulla cintura vi è una inversione di senso, anche se essa ha sempre avuto un’anima guerriera. Nel passato la cintura sosteneva la spada, la pistola, il coltello, oggi è l’emblema degli sport da combattimento, appunto il pugilato, il judo, ecc. La cintura, quindi, sostiene l’arma ma è arma essa stessa. Le cinture esplosive, in verità, sono molto più grandi delle cinture dei pantaloni, a volte sono delle vere e proprie corazze, che invece di difendere il corpo, lo assassinano, liberando nel contempo chiodi, viti, bulloni, pezzi di metallo, ecc. Nel romanzo di Ahmed Abodehman, La cintura, il protagonista dice: «Portare il coltello alla cintura fa l’uomo, non la barba né il sesso». Insomma si indossa la cintura come rito di passaggio all’età adulta. Dalle bretelle dei bambini alle cinture esplosive.

Quando il terrorista indossa la cintura esplosiva significa che è divenuto maturo per entrare nell’al dilà, il rito di passaggio dalla vita terrena a quella celeste sarà la sua morte, l’esplosione violenta aprirà il muro che separa la terra dal paradiso. Anche in questa scelta vi è una componente moderna che fa riferimento al mondo giovanile: la fretta. Andare in Paradiso a 20/30 anni, senza dover vivere una vita fatta di orari per le preghiere, visita alle moschee, letture monotone del libro sacro è più gratificante di sicuro. Meglio accorciare l’attesa con un gesto sublime, purificatore. Un gesto esemplare da martire.

Oltre al fascino di indossare una cintura che ti scaraventa dall’infanzia della terra all’età adulta del cielo, bisogna considerare il fuoco purificatore dell’esplosione. Il fuoco non solo lava, come acqua purificatrice le colpe del martire, ma pulisce il mondo dalla presenza degli infedeli, pertanto l’esplosione avrà un doppio merito. Purifica il soldato e i suoi nemici, fa guadagnare il paradiso ad uno ma spedisce all’inferno molti altri. Questo suicidio vale più di quello fatto come protesta, quello appunto che praticavano i bonzi per protestare contro la guerra in Vietnam o come il cecoslovacco Jan Palach che si diede fuoco per protestare contro l’invasione sovietica del 1968 (nella foto accanto al titolo, il monumento che ricorda quel gesto a Praga).

Altro elemento simbolico dell’atto estremo è la fiammata. Morire facendo una grande rumorosa fiammata fa pensare a cose accecanti: la falena che brucia, il fulmine, il flash, oppure come dice Dante Alighieri alla visione di Dio. «O luce etterna, che sola in te sidi/ sola t’intendi e, da te intelletta/ e intendente te, ami ed arridi» (Paradiso, Canto XXXIII) Insomma, perché non pensare che quella fiamma umana sia un anticipo della misteriosa, eterna luce di Dio? Se è vero questo, è naturale per un fedele correre verso di essa, pronunciando ad alta voce il suo nome, perché Dio mi venga incontro e si faccia “vedere” appena varcata la soglia?

Come abbiamo detto ogni generazione ha la sua “estetica” del suicidio. Questa si riveste di aspetti religiosi e viene sfruttata a fini politici militari. Divenire martire significa dare un senso alla propria vita, rivestire di una dimensione sacrale il proprio corpo, uscire dall’anonimato e dal consumismo al quale ci stanno condannando i valori della società occidentale.

C’è da stupirsi quindi nel vedere che questa forma di suicidio affascini anche i giovani dell’occidente?

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