Alberto Fraccacreta
L'elzeviro secco

Parigi, 13 novembre

L'amore, la stanchezza, le amiche... Proviamo a entrare nella quotidianità "normale" di una ragazza parigina che la sera del 13 novembre è uscita di casa per andare al Bataclan

Sono stanca e non ho alcuna voglia. Senonché qualcosa mi dice di andare, e a qualcosa ripugna il suggerimento. Non ci presto molta attenzione, come al solito. A queste stupide battaglie psicologiche cerco di non dare il minimo peso: mi stanno rovinando la vita. Dalla finestra che manda i lampi della sera autunnale, inaspettatamente calda, odo la gente frinire di allegria. Ho il fiele in bocca, come se avessi ingerito acido fenico. Non è possibile rimuginare mezz’ora su una semplice uscita. Non è un dovere uscire. La mia carne è disgustata da riflessioni che ritengo, quantomeno, idiote, se non perniciose. Sto qui in uno stato di forte apatia per dieci minuti, presa, sbatacchiata, da mille venti diversi di punti deboli – i miei punti deboli –, cicloni emotivi che mi colpiscono, mi lasciano abbacinata nella tempesta solare di una demenza che pure odio con tutte le mie forze, ma della quale non riesco forse, oggi, a fare a meno. Lo squilibrio mentale della confusione mentale. Lo squilibrio è una droga. Non saprei dire, è una strana sensazione “centrifuga”. I rumori esterni mi risvegliano dal torpore.

Mi vesto e scelgo di andare: è una rappresaglia contro me stessa. Poi le amiche, sempre lì apparigliate: «Ma dai, ma su… stiamo insieme… ci divertiamo…». Magari hanno adocchiato qualcuno e devo far da maestra accompagnatrice per la damigella in ghingheri, di corsa al gran ballo delle occhiatucce fra trentenni. Il mio fidanzato è fuori sede. Sul letto, mentre mi vesto rapidamente e mi dissesto i foruncoli dalla pelle smagliata, penso a com’eravamo belli tre anni fa, all’inizio della nostra frequentazione, che belle speranze avevamo, e come la vita ordinaria le stesse silentemente distruggendo. Troppo lavoro, o presunto tale. Troppo ambaradan. Non esiste rigenerazione nei rapporti odierni: nascono vecchi, usurati. Sono uccisi dalla stessa società in cui viviamo. Il fatto è che la nostra epoca si nutre invariabilmente di tragedie e nevrosi.

Adesso ho sonno, altro che divertimento. Ma il mio deve essere un moto reazionario. È un periodo che dormo in continuazione, tutto mi stanca, nulla mi appaga. Possiedo anche, sommariamente, una visione della vita indirizzata al peggio, che, per così dire, mi sgualcisce l’epidermide, mi invecchia. Mi irrughisce. Sembra strano, ma, in quegli attimi, mi sento inadatta al parto, svuotata degli organi interni, vorrei rinchiudermi in un guscio di sterilità. Non mi piace farmi trovare in questo stato. Ho detto: «Possiedo una visione della vita»; sì, è una forma strana di possesso, perché comprendi, a denti stretti e contro ogni inconscia evidenza, che quella cosa la vuoi e la desideri con tutta te stessa. È una visione infelice della vita che diventa più urgente di ogni felicità. In effetti, amo la mia infelicità, forse la amo al di sopra di tutto. Sono innamorata della mia infelicità. E il mio ragazzo intuisce questo tradimento.

Stanca, di nuovo. Ho una certa, insopportabile tendenza alla pigrizia e sono giorni che provo a combatterla, per cui non andare al concerto, ora, mi sembra come desistere dai miei propositi. Una sconfitta.

Ho detto “amore”? Che razza di idea? Amore e possesso sono l’uno il contrario dell’altro. L’amore è la fine del possesso. Ma il possesso è l’amante più seducente.

Ho cercato di raccontare queste sensazioni al mio ragazzo e, per quanto gli voglia bene, certe sfumature proprio non le riesce a cogliere. Non perché sia stupido, peggio: è ottuso, sempre inalberato sulla difensiva delle sue posizioni, serrato in una sua personale cortina di riservatezza.

Mi rassetto per bene e scendo di casa. Sto ancora riflettendo, e non dovrei. Le mie amiche sono già di sotto, in macchina. L’aria frizzante sciaborda dal lungo corridoio aperto del viale. È una scatola di cartone scoperchiata senza il camoscio delle scarpe. La lettiera impiumata di un gatto. Una volta in auto, apro il finestrino posteriore: mi piace sentire il vento pizzicarmi la pelle con dita gelate, come facevo da bambina e la mamma mi redarguiva perché temeva mi buscassi un raffreddore. Oggi non li ho sentiti i miei. Domani li chiamerò. Ci fermiamo in un bar a prendere un panino al prosciutto e una birra. Il bar è proprio limitrofo al teatro. La leggerezza dei discorsi intavolati dalle amiche mi fa provare un senso di benessere. Ah, che dolcezza. Finalmente scevra dall’inquietudine, mi dico: «Brava, hai fatto proprio bene a uscire, vedi come sei distesa e tranquilla, sarà una bella serata…». Mi sfrego le manine interiori. Telefona il mio fidanzato, sgarbatamente gli biascico: «Ciao, entro nel teatro…». Non voglio condividere con lui questo momento di distensione. Mi risponde: «Ti amo…». Chissà perché non ribatto e lascio che la chiamata si chiuda da sola. Sfumi nel silenzio cibernetico del cellulare, nella sordità coassiale. Adesso sono io a restare asserragliata sulle mie posizioni. Vedo il confine che mi divide da te: confine fisico, confine oltre il quale io resto io, confine prima del quale io sono tu. Tu sei me. È l’eterna tensione all’alterità, la disperata voglia di non esserci e non sentirsi, o la fenomenale identità di sentirsi troppo, sentirsi davvero in un’unica grande luce, così nella maniera in cui dovrebbe essere. Ritorna il senso di angustia. Benvenuto.

Entriamo nel teatro. Sono invasa da rimorso interiore, che diventa presto una voragine di rimpianto: come lo sto trattando male in quest’ultimo periodo, come sono cambiata. Cerco solo emozioni ballerine, spazzate via con un niente, appiccicate al dorso dell’anima per stornare il peso asfissiante della vita, usarle come cortisone spirituale. Lui pazientemente ascolta le requisitorie che ogni giorno gli presento, quasi fosse il conto salato che deve pagare per il diritto alla mia esistenza. Lo vedo, lo vedo nella mente con la sua figura debole piegata dalle mie idiosincrasie. È un’ombra lunga al tramonto. Vorrei tanto rassicurarlo e rasserenarlo, ma le luci si spengono presto. Si spengono. E non siamo già più noi, non sono più l’io che sei, non sei più il tu che non sono. Siamo due strade diverse, ora incomprese. Due reticoli sfalsati su campi elettromagnetici che non si intersecano. Le mie amiche sorridono e gridano, assieme agli altri, che entri la band. Forza, che entri la band! Non posso, no, non posso chiamarlo adesso. Lo chiamerò alla fine e gli dirò che lo amo.

Le luci si spengono. La musica è già iniziata.

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