Nicola Fano
Al teatro Astra di Torino

L’impero di Cechov

Un altro Cechov che vede il mondo dalla parte dei giovani "falliti": è “Tre sorelle" che Emiliano Bronzino trasforma nel manifesto di una generazione inespressa

Viviamo tempi cechoviani: l’impero (ossia l’Occidente) è disfatto benché molti dei suoi sudditi ancora s’affannino a godere di vantaggi e privilegi fondati su regole fallite; i vecchi le provano tutte le pur di mantenere in vita il cadavere mentre tra i giovani c’è chi subisce coltivando illusioni e chi si salva spendendo la moneta dei padroni. Viviamo tempi sommamente cechoviani: ossia moderatamente orribili. In più, nel tratteggiare la fine dello sterminato impero dei Romanov, Cechov ci metteva una vaga ironia, quasi un distacco cinico che – da autore – gli faceva amare i perdenti consentendo loro di riscattarsi nella sofferenza interiore. Oggi anche questo fiancheggiamento appare difficile: chi perde, perde e basta, e chi vince non sotterra nemmeno le spoglie dei vinti, pensa di poterli cancellare come facesse zapping.

Sarà per questo che Cechov è tanto attuale? Sarà per questo che ancora rappresenta il banco di prova di compagnie “giovani”? Forse. Sta di fatto che nel giro di poche settimane mi sono imbattuto in due Cechov di sicuro interesse: sorprendente palestra per collettivi scenici affiatati e (io ritengo e mi auguro) con le mani saldamente ancorate sul futuro. Parlo di Ivanov diretto da Filippo Dini visto all’Eliseo di Roma (clicca qui per leggere la recensione) e ora di Tre sorelle messo in scena da Emiliano Bronzino per la Fondazione Teatro Piemonte Europa all’Astra di Torino. Non ha ancora trovato il suo Jan Kott, Cechov, ma certo anche lui – come Shakespeare – mette in scena sentimenti, più che personaggi. E, se vogliamo, dà corpo a veri e propri fantasmi. Così Emiliano Bronzino (regista di solida scuola ronconiana, e lo dimostra tenacemente) ha chiuso l’universo concentrazionario di Tre sorelle in un foglio di carta accartocciato: la scena di Francesco Fassone è al tempo stesso la trovata migliore e meno sfruttata dello spettacolo in questione. Un enorme foglio di carta bianco, appunto, steso sul palcoscenico, che via via si accartoccia: ci si aspetta che alla fine racchiuda tutti i personaggi e che una mano invisibile butti il tutto in un cestino, ma in concreto non succede. L’intuizione dev’essere completata dalla fantasia dello spettatore. Allora mi è piaciuto immaginare questa distesa bianca come la superficie (solida) di una nuvola sulla quale, con i piedi per aria, recitano la loro prova generale (è Cechov stesso a dirlo) questi individui che possono solo aspettare d’essere personaggi, senza mai poter aspirare alla concretezza della vita.

tre sorelle bronzinoIn un paese di provincia, quattro fratelli (un maschio scioperato, Andrej e tre femmine variamente fallite nell’amore e nella vita professionale, Olga, Masha e Irina) vagheggiano un futuro metropolitano di emozioni forti e grandi successi: «A Mosca, a Mosca» è la battuta proverbiale di Tre sorelle. A indicare la rincorsa verso quel che non c’è e non ci sarà mai: qualcosa che sta a metà strada tra Godot che non arriva e il cavallo, che pure non arriva, che Riccardo III volentieri scambierebbe per il suo regno. Nel dispiegarsi di questa lunga, terribile disillusione, si affannano anche altri personaggi: dai cascami di un esercito alla perenne ricerca di una battaglia da perdere (e che alla fine lascerà il paese, in cerca di una frontiera più conflittuale) ai lacerti di una burocrazia statale che cerca di sopravvivere al tempo nuovo. E, sullo sfondo, una balia, colei che tutto ciò ha tenuto a battesimo, la quale, insultata e scacciata dai nuovi potenti (la giovane e terribile moglie di Andrej) trova il modo di adattare il suo passato al suo futuro ottenendo un “letto governativo” tutto per sé: è lei la vera vincitrice, anzi l’unica. Quasi un vagheggiamento della rivoluzione che verrà (Tre sorelle è del 1900).

Lo spettacolo di Bronzino è un concerto di energie spente sul nascere: atti non conclusi, parole vagheggiate prima ancora di essere dette, corse bloccate in partenza e massime buttate via (come si conviene a Cechov). Un bello spettacolo, insomma, volutamente congelato (sarà tutto quel bianco della scena…) come il tempo che stiamo vivendo: un tempo che pare inutile dover vivere. Ma quel che più persuade, detto già della scena e della regia, è la bella prova corale degli attori: una compagnia di giovani talenti ormai consolidati (la Fondazione TPE negli anni e attraverso stili di regia diversi ha costruito questo bel patrimonio) nella quale si inseriscono alla perfezione due “senior” di grande scuola, come Gisella Bein e Graziano Piazza. Da citare, almeno, le sorelle Fiorenza Pieri, Maria Alberta Navello e Maria Laura Palmieri; il fallito Andrej di Alberto Onofrietti, l’ufficiale irrisolto Versinin di Orlando Cinque o il gustoso vecchio usciere di Riccardo Di Leo: tutti dolenti (e moderni) volti di un’umanità alla ricerca di senso.

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