Pierre Chiartano
Tunisi, 13 novembre 2015

Le incomprensioni pericolose

Vista dal Maghreb, la strage di Parigi è terribile e complessa allo stesso tempo. Segno di una grande debolezza militare del califfato, ma anche della incapacità di capire dell'Occidente

Baiji liberata nel Nord Iraq, poi Sinjiar la città snodo verso Raqqa, Ramadi in procinto di cadere (riconquistata dalle forze irachene il 16 novembre), Mosul praticamente isolata dalla Siria e dall’Anbar. Era naturale che SI (Stato Islamico, questo il nome ufficiale, anche se i media europei continuano a chiamarlo Isis, ndr) reagisse, per cercare di riprendere fiato, non perdere l’iniziativa e il centro della scena sul piano dell’immagine. La bestia ha dato una zampata. Nessuna sorpresa quindi nel primo attentato nel quartiere sciita di Beirut. Chi è stato sul campo sa quanto contino le milizie sciite per la sconfitta del Callifato. Perché poi è arrivato il colpo alla Francia, di nuovo? Io non spenderei troppo tempo in analisi cavillose. I motivi potrebbero essere molto semplici. Il primo è che con l’attacco a Charlie Hebdo si è avuta la chiara impressione di quanto le società moderne e democratiche abbiano pochi mezzi per difendersi da questo tipo di azioni terroristiche. È stato “facile” la prima volta, si riprova anche la seconda. Del resto sono mesi che il tam-tam sui social legati allo jihadismo combattente è «scegliete obiettivi facili», basta fare un numero adeguato di vittime. Alcune tare “ideologiche” dell’intelligence occidentale, limiti oggettivi degli apparati di sicurezza e la fragilità intrinseca delle nostre società “aperte”, hanno fatto il resto. Si comprendono male i meccanismi comportamentali dei musulmani, si sottovaluta il potenziale distruttivo perché si usano dei canoni sbagliati di valutazione del potere “militare” di questi gruppi, organizzati o auto-organizzati. Soprattutto sfugge il funzionamento della macchina del consenso tra i musulmani “arrabbiati” e non. Meccanismi differenti, per certi aspetti, rispetto a quelli occidentali. Quindi può capitare di sottovalutare un elemento, un personaggio, un piano. Un problema complesso che ha origine nella fase di analisi e studio. Negli atenei il mondo arabo-musulmano è studiato in maniera sicuramente metodica e approfondita, ma a volte “inutile”.

tunisia21Da settimane siamo in quotidiano contatto con settori delle Hashd al Shaabi irachene, unità di mobilitazione popolare che la guerra a SI la fanno veramente e la stanno, al momento, vincendo. È un crescendo di battaglie vinte e avanzate nel territorio di al Baghdadi. Se perde Mosul, il Califfato sarà a un passo dal crollo. Le ragioni della sua forza sono anche quelle della sua debolezza. L’aspetto psicologico nel mondo arabo è ancora determinante. E le fortune possono subire capovolgimenti repentini. Anche se non dobbiamo illuderci, non basterà la sconfitta militare. Il Medioriente dovrà avere governi meno corrotti e più efficienti, se vorrà guadagnare la legittimità necessaria per una stabilità politica e sociale.

La seconda ragione per cui è stata scelta la Francia non è facile da affermare in un momento così delicato. Dirò qualcosa di politicamente scorretto: non c’è paese meno amato della Francia in tutto il mondo musulmano, parlo della gente comune non delle élite che fanno affari e lucrano con gli occidentali. O degli ormai esigui eredi del modernismo laico tipo “nasserista”, o degli ormai sempre meno determinanti epigoni dello “sviluppismo” a-democratico dei vari regimi autoritari. La Francia non fa mistero di avere poca considerazione per ogni religione. Questo approccio nel mondo musulmano ha avuto effetti controproducenti. Se poi unisci a questo sentimento non proprio amichevole, una notevole “spregiudicatezza” che ha sconfinato spesso in politiche neocoloniali dell’Esagono, il mix venefico è pronto. Non solo, ma venendo dall’Europa – ormai sono quasi 3 anni – ciò che mi ha sempre colpito e che colpisce ogni musulmano è il doppiopesismo. I morti musulmani contano meno. Non parlo solo della copertura mediatica, un problema “minore” anche se lampante. Mi riferisco all’ignavia politica con cui si “sperimentano” iniziative in tutto il Medioriente e il Nord Africa che come byproduct possono avere risultati devastanti per le popolazioni civili. Sembra che il mantra tra le diplomazie occidentali – non tutte – sia “chissenefrega”, sono secoli che si ammazzano fra loro! Il tifo da stadio, anche comprensibile, con cui si salutano i bombardamenti, spesso in aree urbane densamente popolate, dei russi in Siria e dei francesi a Raqqa (sempre in Siria) – azioni per loro natura tecnica “imprecise” – non è proprio ben compreso da queste parti, in Siria, in Turchia, Libano, Egitto, Tunisia. Non so se e quanti morti civili abbiano provocato – su internet girano molte foto “bufale” – ma è statisticamente probabile che ci siano stati. Quello che ho visto in meno di tre anni e che non sempre ho raccontato, per pudore di non essere all’altezza del compito, è da voltastomaco. A cominciare dalla Siria.

tunisia22L’indolenza e l’ignavia con cui spesso l’Occidente, ma molti governi arabi non sono stati da meno, hanno affrontato le emergenze umanitarie causate da guerre e il modo con cui hanno gestito molte crisi hanno spesso dato la misura del valore attribuito alla vita umana: vicino allo zero. Quello che gli americani chiamano “turf wars”, i conflitti di competenze tra grandi istituzioni, hanno spesso causato più danni e morti delle guerre stesse che avrebbero dovuto sedare. Il Grande Medioriente era un campo ideale dove sperimentare ogni genere di “fesseria” sicuri di non dover pagare alcun conto. E non sempre è stato così. In fondo dall’altra parte del tavolo c’erano dittatori o figli di un laicismo che aveva prodotto il nazionalsocialismo arabo di Michel Aflaq (il partito Ba’th) che alla radice aveva il credo “fabbriche, industrie e bombe” o del modello più “moderato” di Nasser, presto obliterato dalla guerra dei Sei giorni (1967). Tolti loro, c’erano i sauditi con le fondazioni waabite, i petrodollari, gli accordi (non cartacei) sulle forniture militari stipulati dai tempi di FD Roosevelt. Con una politica americana mai compresa, neanche dagli europei, che infatti si avventurarono nell’operazione di Suez (1956) subito sconfessata da Washington. Erano finiti i tempi del colonialismo politico, e cominciati quelli dell’egemonismo economico. Ma gli Usa pagavano lo scotto di aver defenestrato Mossadeq, dopo aver predicato il bene della democrazia.

Tutti elementi ben chiari nel quadro che hanno le popolazioni locali, meno di quelle occidentali. Grazie a media complici, pigri o incompetenti.

La gente nelle interviste non lo dice e se lo affermano, non vanno in onda. Ma al di là della pietà umana per i morti di Parigi, c’è molta rabbia repressa per la disattenzione del mondo verso il massacro quotidiano di innocenti. Come se questo, in Nord Africa e in Medioriente, fosse un mondo a parte, abitato da una sottospecie umana, gente che urla per le strade, senza sapere bene quello che vuole veramente, che non ha sentimenti simili alle persone che vivono nei paesi “civilizzati”.  Dei poveretti a cui, a volte, si dà una mano e ogni tanto si spara un missile. I morti di Parigi per mano di figli del diavolo, ricordiamolo, non fanno che evidenziare questo doppio standard. E il loro obiettivo è dividere. Dividere l’Occidente, dividere l’Islam.

tunisia24Lo scarso entusiasmo con cui si è combattuto fino ad oggi SI ha molte origini, ma un carattere unico: il cinismo politico. Potremmo definirlo Stato islamico di necessità, perché serve a giustificare un flusso di migranti utile a bilanciare i conti di una Europa che invecchia troppo velocemente. Aiuta a tenere sotto lo schiaffo alleati e contendenti mediorientali. È utile a polarizzare e facilitare assetti futuri, come la separazione territoriale tra sciiti e sunniti. Soprattutto facilita il cambiamento di modelli politici in Occidente, che ha un disperato bisogno di semplificare i processi decisionali, per affrontare meglio dinamiche globali molto pericolose. Parliamoci chiaro: si tratta di avere meno democrazia. Tanto per citare, a caso, alcune funzioni della “paura” nella gestione dei comportamenti collettivi. Ma non esiste una vera strategia, viviamo una realtà troppo complessa: è più una sommatoria di speculazioni contingenti.

E chi specula sulle paure per costruire politiche e difendere interessi avrà buon gioco dopo le ultime 129 vittime. Vittime innocenti, da gridare a gran voce. Ma dobbiamo toglierci molte certezze e falsi miti per uscire dall’incubo che si sta parando davanti ai nostri occhi. Un futuro incerto e violento. La certezza di essere portatori di valori solo positivi, il mito di poter capire e interpretare tutto secondo i nostri canoni. Se abbiamo costruito delle “narrative” – in parte fasulle – sulle rivolte arabe, poi siamo stati i primi a non crederci. Non abbiamo avuto il coraggio di crederci. Gli errori si sono sommati agli errori. Il disastro era inevitabile.

E che si sia giunti a un punto di non ritorno per le politiche occidentali in tutto il Medioriente è dettato non solo dalla nascita dello Stato Islamico. Il disimpegno americano, per meglio concentrare le ormai residue risorse nel contenimento della Cina in Asia, la nuova mappa del potere con l’Iran in ascesa e i Saud in affanno, l’ingresso in scena del Cremlino, l’incognita Erdogan e la certezza che se la situazione non dovesse stabilizzarsi Israele con Netanyahu qualche “azzardo” lo tenterà sicuramente, sono una miscela esplosiva. Con la Siria sotto pressione, avviata verso la battaglia “finale” a Dabiq, secondo gli epigoni del califfato, l’Egitto di al Sisi sulle sabbie mobili, la Libia nel caos e la povera Tunisia, da sola, a tenere alta la bandiera di uno straccio di “normalità”, tutta da difendere, c’è poco da stare allegri. E questo è un elenco solo parziale dei problemi.

Comprendere meglio i musulmani non vuol dire essere “teneri” o deboli con i mozzateste di SI. Dopo avere incontrato decine di famiglie disperate per la scelta jihadista dei propri figli, partiti per la Libia e poi la Siria e l’Iraq, posso solo dire che a volte comprendo alcune ragioni di quelle scelte sciagurate. Come può essere compresa una giovanile “disperazione”. Senza speranza e senza un futuro. E sono veri musulmani e musulmane, come Najeh, 26 anni da  Oueslatia, che hanno combattuto con coraggio contro queste scelte sbagliate sotto l’ombra della logica della violenza, cercando di cambiare le cose di fronte a una pigra reazione dello stato, a un’indolenza delle forze dell’ordine di fronte ai reclutatori di SI che giravano liberamente. Con coraggio hanno denunciato, messo la faccia davanti alle telecamere di mezzo mondo. E come ha fatto Najeh, giovane donna di una Tunisia che vorrebbe cambiare a modo “proprio”, col velo ma senza paura contro ogni estremismo, che ha dovuto piangere la perdita di due fratelli (gemelli) morti in Libia e in Siria sotto le bandiere di Daeesh, dopo aver cercato disperatamente di fermarli prima e di salvarli poi. Di fronte a tanto coraggio e determinazione di veri credenti, autentici musulmani, certi balbettii europei o giustificazioni post ideologiche farebbero ridere se non fossero la prova che non siamo più in grado di produrre una cultura abbastanza forte da farsi rispettare, sufficientemente duttile per comprendere. Non serve il “giustificazionismo”. E neanche la tollerante condiscendenza. Serve l’esatto contrario. Ma ciò implicherebbe una politica molto più complessa di quella stile anni Settanta fin qui espressa dalle feluche in doppio petto. In un momento in cui la politica debole è intrappolata in logiche assurde.

E non è detto neanche che, trovando la “pietra filosofale” della politica mediorientale (MENA) giusta, questo comporti automaticamente una facile soluzione dei problemi. Dobbiamo comunque prepararci a tempi lunghi e situazioni difficili.

Ora Stato Islamico non si fermerà e non si limiterà ad altre azioni terroristiche. Ha bisogno di aprire un nuovo fronte. Deve allentare la pressione che subisce in Iraq e Siria. Dovendo ipotizzare quale area geografica o paese sarà l’obiettivo del califfo, l’Egitto e la Tunisia sono in buona posizione.

tunisia25In Egitto una parte della popolazione si sente tradita da al Sisi e dall’Occidente che pensa l’abbia appoggiato incondizionatamente. Il nuovo presidente ha fatto strame di leggi e ha fatto scorrere sangue a Nasr city e altrove. Gode dell’appoggio delle élite statali, dei privilegiati e di una parte degli egiziani. Vedremo presto di quanti. E di molti falsi amici altrove. Il Sinai storicamente è sede dell’islam beduino che ama il waabismo del califfo nero, ma non basta a destabilizzare il nuovo regime. All’interno delle fila delle forze armate ci sono settori che non hanno gradito le esecuzioni sommarie fatte su alcuni reparti (molti ragazzi originari di Bayna Swift si erano rifiutati di sparare sulla folla).

La Tunisia è come una fragile pianta che dovrà crescere, ma deve prima sopravvivere. È impreparata a un confronto armato complesso con lo jihadismo. Esigue le sue forze, non addestrate al combattimento reale. Ora c’è un terrapieno di più di 200 chilometri lungo il confine libico. Meglio di niente. Ma serve altro, innanzitutto mettere a guardia di quel “muro” l’esercito di disoccupati che sopravvive col contrabbando. Creare vero consenso verso lo stato come istituzione.

Il paese è quello col più alto numero di foreign fighter arruolati nello jihadismo, molti rientrati col loro bagaglio di addestramento militare al combattimento reale; è ricco di stronghold jihadisti (con sigle che ondeggiano tra Aqim a IS) Ben Gardane, Gafsa, lo Chaambi, il Meghilla, el Kef, alcuni quartieri della capitale, tanto per citare solo alcune zone calde che formano una dorsale del terrorismo, da sud a nord. Ha un progetto: il califfato di Kairouan, città simbolo con una forte presenza di cellule jihadiste nel governatorato di cui è capitale. La strage di Sousse era probabilmente funzionale a tale folle progetto. Un “bubbone” occidentale a 60 chilometri da Kairouan. La rivista “patinata” di SI, Dabiq (che prende il nome da una città siriana, dove si pensa avverrà lo scontro decisivo contro i cristiani), aveva messo in copertina proprio la moschea Oqba di Kairouan nel numero seguito alla strage del Bardo (marzo), e prima di quella di Sousse (giugno). L’inesperienza al combattimento e il numero insufficiente di Esercito e Guardia nazionale, fanno della Tunisia un attore debole contro lo jihadismo armato. Spesso le forze di sicurezza sono intimidite dalla brutalità dei gruppi armati. Anche se il paese maghrebino è l’unico uscito dalle rivolte arabe con una costituzione nuova, delle elezioni e tante speranze di diventare un modello per tutta la regione. Specie dopo il Nobel. E capita spesso di vedere cittadini comuni mostrare più coraggio delle istituzioni nella lotta contro il terrore. È la gente che denuncia la presenza degli jihadisti armati e a volte ne paga il prezzo, come un pastore sedicenne decapitato pochi giorni fa. Ma sono loro l’unica vera speranza per battere l’odio cieco di una fede letteralista che non capisce che Dio è amore.

Ora gli occhi di tutti sono puntati sulla Francia ferita: come non avere pietà per le vittime di una strage assurda? Fanno bene gli imam delle 2.500 moschee francesi a leggere una “dichiarazione solenne” contro ogni forma di violenza. Forse ha fatto altrettanto bene Antoine Leiris, colpito nell’affetto più profondo – ha perso la moglie negli attentati di Parigi – a scrivere ai terroristi “non avrete il mio odio”. Una lezione di umile potenza da un francese. Un piccolo segnale in mezzo a un mare di incomprensioni pericolose.

 Le foto sono di Pierre Chiartano

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