Danilo Maestosi
Italia, 13 novembre 2015

Il peso della morte

Prosegue la nostra iniziativa per riflettere sui fatti di Parigi. Se la morte non ci appartiene più diventa più semplice dispensarla ad altri come punizione inferta a chi ci ha costretto a farci i conti

No, non voglio parlare della paura. Quella, lo dò per scontato, non può che aumentare quando la strategia del terrorismo colpisce la gente qualunque e gli spazi di una vita collettiva che più ci assomigliano. Ma la paura più forte è la difficoltà di tenere a bada la paura quando produce odio e non senso, la tentazione di chiudersi a riccio in un coprifuoco di leggi speciali, di trovare in fretta rassicurazione e risposte per tutto e per tutti. Non voglio parlare del dolore, ma di quanto durerà, di quale altro dolore prenderà il posto, cancellandolo o stravolgendone il ricordo: non è forse già sbiadita la commozione per il bimbo siriano annegato in Grecia, non si è forse già allontanato nella fissità di un cimitero della memoria l’incubo delle Torri gemelle? Non voglio parlare della solidarietà, giusta e doverosa, guai arrendersi, per questa strage di innocenti, ma interrogarmi già a caldo, sulla scelta delle vittime altrettanto innocenti su cui si potrà riversare in futuro l’ansia di risarcimento del nostro Occidente ferito.

Dalla scia sanguinosa e atroce di questo 13 novembre a Parigi vorrei distillare almeno un monito a più lunga gittata. È nell’invito a smetterla di considerare la morte, ogni morte, uno scandalo, ampliato dal numero delle vittime (per questo ci sembra così importante contarle) che la sua falce implacabile lascia sul terreno.

Ogni morte, specie se inattesa o violenta, è vista come un insulto epocale all’umanità che allungando i confini del tempo di vita ha allontanato da se, rimosso come un nonsenso il senso naturale, il mistero e la ritualità della fine. Una patente d’illogicità «disumana» che – non è forse una malattia? – finiamo per estendere ad ogni accadimento luttuoso: una catastrofe naturale, un incidente stradale provocato da un ubriaco, un delitto, un errore medico,un epidemia, figurarci un bagno di sangue pianificato e spietato. E che ci spinge a cercare difesa in un anarchico ripescaggio dell’arcaica norma del taglione: invocare pene smisuratamente più gravi, fino al paradosso delle condanne a morte ancora praticate in tanti paesi del mondo, della giustizia fai da te e del linciaggio, che pure sono vistose cadute di civiltà. Della guerra come unica risposta possibile alla guerra che il terrorismo ci dichiara.

Se la morte non ci appartiene più diventa più semplice dispensarla ad altri come punizione inferta a chi ci ha costretto a farci i conti. Come rimedio per evitare altre morti: vedi le bombe atomiche di Hiroshima e Nagasaki. Per esorcizzare la morte finiamo per banalizzarla, scivolando nel peccato che imputiamo al terrorismo dei kamikaze. A loro almeno resta l’illusione di una scorciatoia per il paradiso concessa da un Dio frainteso, a noi invece il precipizio nell’inferno di una giustizia senza più le misure che l’esperienza dell’Illuminismo ha regalato all’Occidente. La morte insomma, rassegniamoci, è fin troppo umana. Come la violenza, l’impulso a conquistare, distruggere, vendicarsi.

La rabbia come quella che ora proviamo, perché gli orrori dell’Isis ci chiudono in una trappola che non abbiamo disegnato.Sacrosanto provare rabbia.La rabbia è un motore di cambiamento, una risorsa da usare se la utilizziamo per smontare non solo la gabbia del terrorismo,ma tutte le gabbie che noi stessi abbiamo fabbricato o subito e fanno il nostro mondo peggiore. Ma attenti alla rabbia perché, come insegna la filosofia spicciola di Guerre Stellari, ci può trascinare verso il lato oscuro della forza, dove le milizie del Califfato hanno scelto di attestarsi. Trasformare in demoni alla Dark Fener anche noi.

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