Alberto Fraccacreta
L’elzeviro secco

Educare a vivere

In epoca di guerra nulla è più urgente per l’essere umano della coscienza identitaria. Ma la scuola e l’università che dovrebbero sovrintendere alla formazione di questa capacità, in realtà abbandonano gli studenti. E così si stringe la spirale della crisi…

L’università italiana di oggi è un liceo. Il liceo è una scuola media. La scuola media è una scuola elementare. La scuola elementare è l’asilo. L’asilo è un centro di aggregazione fetale. Le ragioni del mutuo scorrimento sono di ordine economico: l’università sembra una friendzone per paganti senza possibilità di futuro e di lavoro. La friendzone è lo spazio paludoso delle relazioni odierne in cui non si capisce se si è amici o fidanzati. Friendzonare è vivere un rapporto non chiaro. In effetti, nell’università si respira un rapporto non chiaro ab origine: finché paghi sei dentro, al di fuori del contratto non esisti. In questi anni, ponendo mente al futuro con grande accortezza d’animo, sono state aperte Facoltà di necrologia nella steppa.

Non c’è logica di immissione al lavoro: c’è Gelassenheit, abbandono. Nel senso che uno non può altro che abbandonarsi alle cure di quell’università o di quella scuola, che però – è qui l’inghippo – lo abbandona. Con il termine Gelassenheit Heidegger intendeva il bisogno, la necessità attuale di lasciarsi andare al pensiero meditante e non calcolante. Ma noi non possiamo far altro che abbandonarci all’Abbandono: calcolante, per giunta.

In Ideologia tedesca Marx ed Engels sostengono che «gli uomini hanno sempre elaborato false concezioni di se stessi, di ciò che fanno, del mondo in cui vivono». Qui nasce la self-deception, ovvero la capacità di mentirsi, la madre dell’egocentrismo, dell’autogiustificazione, del proiettare sugli altri le cause di un male che risiede nell’unico centro vero del potere: l’Io. La self-decepition riporta il torto sugli altri, vede solo gli altrui difetti e, alla fine, disconosce la loro umanità.

L’università e la scuola dovrebbero – ne hanno il compito – insegnare a vivere, piuttosto che “abbandonare” lo studente a questi meccanismi, senza fornire gli arnesi gnoseologici e culturali adatti per entrare in collisione con il potere interiore.

Recenti ricerche neuronali hanno evidenziato come la capacità emozionale sia indispensabile per la messa in opera di comportamenti razionali. Bisognerebbe sviluppare una maggiore tensione alla creatività, che sappia comprendere il pensiero dell’antinomia e sviluppi un’etica della comprensione e un’ecologia dell’azione, orientate verso la piena convivenza tra soggetti: saper dunque empatizzare, saper entrare nell’umanità degli altri. Così forse si riuscirebbe a conseguire quell’identità e quella cittadinanza terrestre di cui parla Edgar Morin ne La tête bien faite: non zucche piene, infarcite di nozioni avulse dal contesto, ma teste “ben fatte”, capaci di elasticità mentale, connessioni logiche ed extralogiche. In epoca di guerra nulla è più urgente della coscienza che l’essere umano vive su un piano identitario. Apparteniamo tutti al pianeta Terra. Alla conferma di queste acquisizioni dovrebbe condurre la “buona scuola”, nel momento in cui si affaccia l’ipotesi di un concorso a cattedra che porterà al vaglio nuove leve di insegnanti.

Se Heidegger ricercava un’etica originaria, che in fin dei conti altro non è che una mistica della realtà, Morin suggerisce l’antropo-etica, destinata all’uomo tout court, al quale vorrei aggiungere un’antro-poetica, una poetica dell’uomo, che sappia comprendere il senso della bellezza e l’etica della sconfitta, solvente di molti falsi edifici moderni del pensiero, protesi lungo la via della creazione di soggetti «destinati a vincere». La nostra società desacralizzata, benché si creda il contrario, contiene numerosi richiami al mito e alla magia. Si nutre di miti. La cosiddetta ragione provvidenziale e la religione del progresso, ad esempio, che confermano la tendenza umana all’idolatria: di sé e della realtà esterna, abbracciata totalmente in una cieca fede nella non-fede.

Morin sottolinea anche come la crisi dell’insegnamento sia inseparabile dalla crisi della cultura. Aggiungo che la crisi della cultura è intimamente connessa alla crisi spirituale; infatti viviamo in un’epoca assimilabile, nel mondo antico, alla fine dell’Impero romano.

Non siamo i padroni dei nostri figli-alunni, siamo i loro servitori. La scuola non è, non può essere il luogo dell’apparire. Certe volte si pensa che gli studenti fungano da pubblico inerme su cui riversare lo spettacolo della propria egoicità, scatenare i gorghi della self-deception. La scuola diventa così un palcoscenico, gli studenti uno specchio di rifrazione. Ma non siamo all’Opéra. Afferma ancora Morin: «Il mondo degli intellettuali, che dovrebbe essere il più comprensivo, è il più incancrenito, per ipertrofia dell’ego, bisogno di consacrazione, di gloria». Con Platone mi chiedo: chi custodirà i custodi?

C’è un passo del Vangelo di Luca (Lc 2,41-50) che cade come una luce sul giorno del racconto. Nel tempo della Pasqua, a dodici anni, Gesù rimane a Gerusalemme presso il Tempio, provocando l’affannosa ricerca dei genitori. Una volta trovatolo, Maria domanda: «Figlio perché ci hai fatto questo?». Ecco, appunto, domanda.

Esistono due modelli educativi in sostanza: quello tradizionale/patronale, nel quale i genitori reputano di sapere cos’è giusto per i figli, e quello permissivista, nel quale tutto si concede e tutto si accetta. L’educazione di Maria sfugge a entrambi: la sua domanda non è una requisitoria e non è nemmeno silenzio. Maria non grida improperi contro il figlio né dimostra un atteggiamento remissivo. È altro. E Gesù, benché rivendichi la discendenza diretta da Dio, dopo aver spiegato le sue ragioni, continua a sottostare alla giurisdizione dei genitori. E «sua madre custodiva tutte queste cose nel suo cuore». Che altro dire?

Il linguaggio umano è forse inadeguato a commentare correttamente questo passo mirabile. Né potrei spiegare, io che non ho capacità ed esperienza, dove risieda il quid dell’educazione mariana. So solo che qui c’è tutta la verità sull’educazione.

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