Alberto Fraccacreta
L'elzeviro secco

La Trinità di Dante

Settecentocinquanta anni dopo, i versi di Dante stanno ancora lì a raccontare il mistero dell'amore. Per l'Italia (nave senza nocchiero), per il mistero dell'uomo e per Dio

«“E se tu forse credi ch’io t’inganni,/ fatti ver’ lei, e fatti far credenza/ con le tue mani al lembo d’i tuoi panni./ Pon giù omai, pon giù ogne temenza;/ volgiti in qua e vieni: entra sicuro!”./ E io pur fermo e contra coscïenza./ Quando mi vide star pur fermo e duro,/ turbato un poco disse: “Or vedi, figlio:/ tra Bëatrice e te è questo muro”». Dante ha paura delle fiamme e, per la prima volta nel suo viaggio, non cede agli ammonimenti della fidata scorta. Le esperte parole di Virgilio non aprono al lacerante passaggio. È necessario qualcosa di più: quel nome che nella mente sempre rampolla, Beatrice. Corre dunque a incendiarsi come tizzone rovente, ma le vampe sono fredde. Il battesimo del fuoco è superato.

Nel 2015 Dante compie settecentocinquanta anni. Nasce a Firenze nel 1265 da Alighiero di Bellincione e Bella degli Abati, figlia a sua volta di un Durante Scolaro. Il nome Dante è infatti ipocoristico di Durante. La sua vita si snoda tra il circolo dello Stilnovo, di cui fu il maggior interprete, e la politica attiva dell’Italia dei Comuni, che gli procura per la sua militanza nei suscettibili Guelfi Bianchi non pochi grattacapi, tra i quali l’esilio nelle varie corti del Settentrione.

La mistica Natuzza Evolo raccontò che un certo Dante aveva scontato trecento anni in Purgatorio, prima di accedere alla beatitudine suprema, perché diede spazio, in un suo celebre scritto, a simpatie e antipatie personali nell’assegnare i premi e le pene: di qui il castigo, trascorso però al Prato Verde, l’anticamera della luce divina, senza soffrire altra sofferenza che la mancanza di Dio.

Dante AlighieriLa nostra identità nasce con Dante: Ahi serva Italia di dolore ostello, nave senza nocchiero in gran tempesta, versi che ancora oggi rappresentano intimamente il profilo politico e culturale del Paese. Egli è il padre della letteratura italiana, e come tale crea un’immediata crepa col mondo dei figli: il parricidio di Petrarca, non meno illustre di quello di Aristotele, consegna alla nostra poesia (e, di rimando, a quella europea) il ruolo di ancella di non essenza e di negatività. Il poeta è tetro, malinconico, non conosce patria, esiste solo nella sospirata absentia. Le sue grosse ali lo fanno incespicare tra i mortali. Non sa vivere e non sa credere. Aldiqua e aldilà gli sono entrambi odiosi. Petrarca ci fa sperimentare, in maniera purtroppo mirabile, il crudo nulla della coscienza. Ma il progetto dantesco era ben diverso. Dante, come pochissimi altri poeti nella storia, esplora i confini del Dicibile, entrando in contatto con ognuna delle possibili esperienze liriche.

Di certo non guasto il finale al lettore, se racconto come va a finire la Divina Commedia.

Nel canto ultimo, il XXXIII del Paradiso, cresce vertiginosamente il topos dell’ineffabile dinanzi al più insigne antagonista, nei confronti del quale non c’è adeguata forma di espressione.

La preghiera alla Vergine, pronunciata dalle labbra accese di San Bernardo, conferma la centralità di Maria nel progetto di salvezza umano voluto da Dio («umile e alta più che creatura/ termine fisso d’etterno consiglio») e l’impossibilità di raggiungere tale salvezza senza la sua intercessione («Donna, se’ tanto grande e tanto vali,/ che qual vuol grazia e a te non ricorre,/ sua disïanza vuol volar sanz’ali»), talvolta anche libera («La tua benignità non pur soccorre/ a chi domanda, ma molte fïate/ liberamente al dimandar precorre»); l’orazione si conclude con l’assenso che da lei scende verso l’uomo – nello stesso modo in cui Cristo si incarnò – e attraverso lei risale verso Dio – per l’instancabile ruolo di mediatrice –, come vuole San Luigi Grignion de Montfort nel Trattato sulla vera devozione.

Più avanti, quando Dante rimane a tu per tu con l’unico oggetto del grande “poema del desiderio”, sopraggiunge una formula che stigmatizza, per mezzo di un raffinato ritmo circolare, la Santissima Trinità: «O luce etterna che sola in te sidi/ sola t’intendi, e da te intelletta/ e intendente te ami e arridi». Non esiste definizione teologica più esatta e, al contempo, più ardente di questa. Il divino riso si effonde e si irradia nel mondo come uno strascico della sua presenza, un’onda increspata sul lago.

Dentro il cuore dell’uomo c’è Dio, ma dentro il cuore di Dio c’è l’uomo, pare suggerire il poeta («dentro da sé, del suo colore stesso,/ mi parve pinta de la nostra effige»). Tale frase adombra il mistero per il quale nella divinità di Cristo è presente la sua umanità. E in essa Dante concentra tutta la sua vis lirica: lascia intendere che egli vede se stesso non vicino a Dio, ma in Dio, nel puro indïarsi, Dio egli stesso («per che ’l mio viso in lei tutto era messo»). I dannati hanno perduto l’imago Dei, i dolorosi volti infernali non hanno più nulla, nemmeno un guizzo, una scintilla, della somiglianza. L’inferno è la condizione del non poter più amare. E la quadratura del cerchio per un perfetto intendimento, Dante la riceve in grazia del fulgore che illumina e serra tutte le vie percorribili della mente. Anche se non vede, adesso, nell’attimo in cui scrive, è nell’ormai certo e non mutabile stato d’amore.

A l’alta fantasia qui mancò possa;
ma già volgeva il mio disio e ’l velle,
sì come rota ch’igualmente è mossa,
l’amor che move il sole e l’altre stelle.

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