Lidia Lombardi
Visto all'Argentina di Roma

La crisi secondo Miller

Un quartetto di ottimi attori (Umberto Orsini, Massimo Popolizio, Alvia Reale e Elia Schilton) ripropone un raro teatro di Arthur Miller sul potere del denaro sui sentimenti

Il denaro. Peggio, il prezzo, che il denaro soggettivizza, colmandolo di visceralità sentimentale. Gira attorno a questo nucleo il dramma di Arthur Miller, Il prezzo appunto, portato in scena da quel monumento del teatro italiano che è Umberto Orsini. Il quale ha con merito rilanciato il testo quasi sconosciuto in Italia, fuorché un allestimento di Raf Vallone nel 1969, un anno dopo il debutto del lavoro negli Usa, al Morosco Theatre di Broadway, accompagnato da lusinghieri giudizi. Orsini ha trovato anche un blasonato traduttore dell’opera, Masolino D’Amico. E ha voluto che a dirigerlo fosse Massimo Popolizio, accanto a lui per le decennali tournée di Copenaghen di Frayn. Ne è scaturito uno spettacolo – in scena al Teatro Argentina di Roma fino all’8 novembre – che ha due frecce al suo arco. Una perfetta macchina scenica, un teatro di parola classico interpretato da attori sempre calibrati, spalle funzionali al mattatore Orsini. E, soprattutto, un tema attualissimo, la crisi economica che fa scoppiare quella dei valori.

Infatti rimette tutto in discussione per un tranquillo poliziotto, Victor (nel ruolo lo stesso Popolizio, in scena tutta la durata della rappresentazione) la necessità di vendere i mobili di famiglia. Il padre è morto da tempo, l’appartamento è in uno stabile che sta per essere abbattuto. Ha un fratello che non vede da lustri, Vic: è Walter, ha fatto carriera come medico, è straricco. E una moglie, Esther, che si illude di vincere con l’alcool la depressione per un’esistenza monotona e scandita dalle ristrettezze. Walter piomba all’improvviso, lisciato nel bel trench e nell’abito sartoriale, nella vecchia casa, proprio mentre Vic ha chiuso la trattativa – condotta in modo assai remissivo, secondo il suo stile di onesto perdente – con un vispo broker ebreo, Umberto Orsini. Il quale parecchie volte lo ha avvertito: «Con la merce usata non si può essere sentimentali».

Ma proprio il grumo dei sentimenti emerge prepotente tra i fratelli e la donna. Un intrico che avvolge rancori, rivendicazioni, ricordi, ragioni e torti, insomma il repertorio di angosce familiari attorno al quale gira sempre l’autore di Erano tutti miei figli. Dalla crisi del 1929, che ha travolto il padre, ricco imprenditore, ciascuno è uscito a suo modo: Walter mollando la famiglia e costruendosi egoisticamente la propria fortuna, Victor accettando il primo lavoro capitatogli e rimanendo accanto al genitore, annichilito dal crac ma pur sempre profittatore, stavolta ai danni del figlio, quel Vic che Esther giudica uno smollacchiato. Tutto questo rivendicano l’un l’altro i tre protagonisti (e ciascuno pirandellianamente pare avere ragione) mentre Gregory Solomon, il broker novantenne che ne ha viste tante, li osserva disincantato, pronto a tirar fuori dall’acquisto vantaggioso di quella mobilia lo sprint per continuare. L’epilogo, nel quale moralisticamente Miller fa vincere le ragioni del poliziotto di non speculare sulla vendita dei mobili e dei ricordi, vede riavvicinarsi marito e moglie. Mentre sulle note di un vinile anni Trenta rimandate da un vecchio grammofono, Solomon danza sui guai della vita.

il prezzo di arthur miller2È proprio sul grigio di esistenze con poca speranza che gioca la regia pacata di Popolizio. Tutto scorre nei dialoghi magistrali di Miller, la rappresentazione fila liscia come un orologio svizzero verso la conclusione. Increspa la situazione il rumore sordo delle gru che demoliscono il palazzo e – chissà? – l’ordine sociale. La sdrammatizzano parecchie battute divertenti, tra Orsini-Solomon e Vic-Popolizio, tra Vic e Esther (Alvia Reale), anche tra Vic e Walter (Elia Schilton). Perfino l’improbabile feeling che si ricrea fra i due coniugi sembra giustificato. Perché non c’è altra scelta.

La scenografia di Maurizio Balò sottolinea bene lo iato tra presente e passato e tra caratteri umani. Da un lato i mobili impacchettati, ammassati l’uno sull’altro sono i convitati di pietra che una volta avevano vita. Dall’altro, un vuoto grigio con appena un lavandino è il presente azzerato. Per fortuna che, a terra, c’è il giradischi.

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