Paolo Petroni
Al Festival RomaEuropa

Il sabba di Jan Fabre

Ventiquattrore di erotismo, violenza, sfinimento: la maratona di Jan Fabre intorno ai miti greci è un'allusione all'energia primordiale. Perché «il seme dell’orgoglio genera il frutto del disastro»

Un rito dionisiaco nell’antica Grecia durava tre giorni e tre notti. Jan Fabre, volendo rimandare ad esso, oggi ha costruito uno spettacolo performance di 24 ore consecutive che ha intitolato Mount Olympus – To glorify the cult of tragedy e ha portato a Roma, al Teatro Argentina, nell’ambito del festival RomaEuropa, riempiendo il teatro, diciamolo subito, per tutto il tempo, con pochi abbandoni e ricambi, sino la finale con applausi ritmati infiniti, urla, fischi, pestar di piedi, un piccolo sabba entusiastico passato dal palcoscenico alla platea e i palchi.

Jan Fabre è artista creativo, provocatorio, sperimentale che crede nel gesto dell’artista, nel suo essere creatore, puntando all’estetica (lui dice la bellezza) e, nel suo caso, a far emergere la fisicità, e queste 24 ore sono un inno alla fisicità, all’intensità del movimento, all’esplosione e conservazione dell’energia, se ancora alla 23/esima ora, per la scena finale tutti hanno la forza di correre, muoversi, agitarsi forsennatamente per un’ora, cospargendosi di pitture di vari colori, di ritagli di carta e tant’altro, scivolando, cadendo e rialzandosi per ripartire senza sosta, senza respiro, trascinando la gente con questa performance, che si rivela nell’insieme più ginnica che altro, prova di resistenza sino allo sfinimento. E il reiterato refrain finale è: «Non c’è niente oltre la battaglia», dopo l’affermazione che «ognuno ha bisogno di un po’ di follia».

Certo, in 24 ore, con tre soste per rifocillarsi e per il riposo (con gli attori che dormono in candidi sacchi a pelo sul palcoscenico e gli spettatori su alcune sdraio disposte nel foyer del primo piano) di cose ne accadono molte e le diciotto scene che scandiscono il lavoro di Fabre sono anche diverse, con alcune intense e forti, sia fisicamente che esteticamente. Si va da Ecuba e Edipo a Alcesti e Ercole, da Agamennone a Clitennestra da Elettra a Medea per citare solo alcuni dei personaggi tirati in ballo, tra l’Inizio e la Conclusione (un’ora l’una) che fanno come da cornice: sono il rito dionisiaco puro e sfrenato (quasi aperto, simbolicamente, da un uomo nudo in proscenio con solo il sesso illuminato da uno spot, sesso che nel silenzio e nell’immobilità a un certo punto si fa turgido e si alza) poi altre esibizioni sessuali, amplessi di ogni tipo, uomini sempre nudi e donne desnude, una ferinità esibita e reiterata allo spasmo al ritmo di un tamburo battuto da una sorta di grasso Bacco, forse Dioniso in persona, che ci ricorda come il sesso sia il motore più forte dell’agire umano. Un inno alla carne, che del resto arriva in scena a grandi pezzi di manzo che vengono più volte lanciati, raccolti, riutilizzati, messi addosso, mentre, col passare delle ore, il loro odore si fa forte.

Mount Olympus3I miti greci non sono raccontati, ma allusi, i personaggi che ne parlano, sempre monologando, anzi scandendo alcune affermazioni, danno per scontato si sappia cosa è accaduto, perché hanno amato o ammazzato, e aggiungono dichiarazioni che sembrano alludere a altro, a cose magari dei nostri giorni. Come: «Hanno scosso le fondamenta di ciò che è santo per i nostri nemici» o «Il seme dell’orgoglio genera il frutto del disastro».

In scena si succedono erotismo, violenza, sfinimento, in una sorta di sabba che porta quasi all’autoannientamento. Tutti o quasi sempre assieme, sempre in movimento, reiterando un gesto, una corsa, un salto, magari con la corda, per minuiti e minuti infiniti. A queste scene ne succedono altre, invece, in cui tutto prende un andamento molto misurato e lento, quasi a volere esprimere qualcosa di trasognato e di fascino del sonno, di dormire, di sogno si parla molto, specie nel procedere della notte. Del resto Fabre ha scritto «Per noi i miti / sono come i sogni. Malgrado tutte le differenze / i sogni e i miti una cosa / ce l’hanno in comune:/ sono stati tutti scritti / nella stessa lingua dimenticata. // Imparando di nuovo questa lingua / dimenticata ricca di fantasia / entriamo in contatto / con la fonte più importante di saggezza:/ la meraviglia / portatrice di cognizioni / da noi stesi a noi stessi….» (da Residui e altri testi appena pubblicato in italiano da Editoria&Spettacolo, pp. 140 – 15,00 euro).

Mount Olympus2Si potrebbero allora ricordare le tante scene statuarie, con gli attori in tunica su vari tavoli, e un gran uso di fumi, in alto e in basso, come a far fluttuare tutto tra le nubi, la bella scena di Agamennone, o quella in cui Clitennestra arriva con un gran cuore (di bue) in mano, confessandosi assassina, mentre Elettra è come persa in se stessa e si masturba e Medea è un essere androgino (un attore maschio travestito). Si parla, si declama, ma anche si canta, si accenna un lieder o un’aria lirica. A momenti di forte impatto e suggestione ne succedono tanti ripetitivi, criptici, infiniti. Quel che via via via vien sempre meno è il senso (tradizionalmente inteso), e credo questo potesse essere nelle intenzioni di Fabre («Nulla di psicanalitico in quel che avviene, ma solo emergere della fisicità, con la stanchezza che allenta ogni difesa», dichiara), ma su un lavoro di 24 ore la cosa finisce per pesare e annoiare, nonostante i momenti di furia servano forse a risvegliare, a ricoinvolgere, a stupire, col pubblico che li applaude a scena aperta, come prove di resistenza.

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