Raoul Precht
Un racconto inedito

Lo spruzzo

Adesso l’istruttore la seguiva a bordo vasca, camminando veloce mentre nuotava e impartendole preziose istruzioni che avrebbe eseguito per poco, soltanto finché lui l’avesse osservata...

Tutte le volte l’impatto con l’acqua la sorprendeva come una lunga frustata, dalla punta delle dita ai calcagni. Era fredda, certo, ma sentiva che come aggettivo non era sufficiente, a essere sinceri era più che fredda, come dire? gelida, ghiacciata, glaciale, e la sua prima reazione era sempre quella di irrigidirsi, entrarci dentro a muso duro, come se lei stessa fosse diventata un blocco di ghiaccio, insensibile, almeno al principio indeformabile. Poi riemergeva come per un contraccolpo, soffiando come una foca, e per un lungo istante restava sorpresa dalla sua stessa indifferenza. Non provava nulla e non sentiva nessuno, neanche gli incoraggiamenti urlati dell’istruttore, men che meno il proprio respiro. Era un attimo di sospensione, di vita più intensa, ma di fuori dalla vita, dalla vita vera. La perfezione, insomma.

Lei, almeno, non era come l’amichetto di suo fratello, che dall’acqua riemergeva bluastro, in viso e un po’ dappertutto; lei un minimo di grasso per schermarsi e proteggersi da quel gelo ce l’aveva, e aveva subito imparato a servirsene. Comunque, non l’avrebbero mai vista battere i denti o implorare una compagna di corso di gettarle l’accappatoio. Piuttosto, sarebbe morta di vergogna. Semmai, cercava di comportarsi come l’amica di sua sorella, la finlandese: stoica e imperturbabile, sopportava qualsiasi temperatura. Da bambina, quando vivevano ancora da qualche parte in Carelia, i genitori avevano preteso che al doposcuola la facessero dormire in giardino, d’estate come d’inverno, anche in mezzo alla neve; non solo era sopravvissuta, ma l’avevano temprata per sempre, tanto che adesso un tuffo nell’acqua ghiacciata era uno scherzo, qualcosa che non meritava neanche di esser menzionato. Non vinceva le gare perché non era abbastanza grintosa e veloce, ma quanto a prontezza nell’entrare in acqua non aveva rivali. Solo sua sorella aveva amiche così.

Adesso l’istruttore la seguiva a bordo vasca, camminando veloce mentre nuotava e impartendole preziose istruzioni che avrebbe eseguito per poco, soltanto finché lui l’avesse osservata; dopo, lo sapevano entrambi, lei si sarebbe distratta e dimenticata di ogni cosa, ed era per questo che non la mollava con lo sguardo. Finché era sotto il suo controllo, però, lei si sentiva tranquilla, come se la sola presenza di quel cerbero desse consistenza a tutto ciò che la circondava. Anche il freddo si stava pian piano stemperando, adesso che continuava a muoversi e a nuotare, adesso che il suo solo pensiero doveva essere quello di stendere finalmente il braccio sinistro con la stessa forza e determinazione del destro, il braccio pigro, come lo chiamava l’istruttore, quello che non si lasciava flettere né tendere a piacimento, ma restava scontroso e intrattabile. Per punirlo, avrebbe percorso le vasche che le spettavano, tutte, senza alzare la testa, con movimenti regolari e concentrandosi solo sul conteggio delle virate. E tutte le fece, le sue vasche, tutte d’un fiato o quasi, braccio sinistro braccio destro gambe flesse gambe stirate, con un ritmo leggermente più blando ma anche molto più regolare di quello che riusciva a tenere in gara.

A pochi metri dall’arrivo si accorse che il respiro cominciava a mancarle. Per fortuna non erano che poche bracciate, il meritato riposo la stava aspettando. Una volta approdata, si aggrappò al blocchetto per riprendere fiato, poi scivolò di lato lungo la corda, allungando il braccio. Il contatto con la corda era una sensazione che le piaceva; era come se in qualche modo, toccando una superficie rugosa, consentisse alla realtà che la circondava di ripristinarsi. Mentre nuotava, le sembrava infatti che la realtà fosse stata messa fra parentesi e in un certo senso non esistesse; appena smetteva, ci voleva qualche secondo d’ozio e di sospensione prima che le cose riprendessero il loro corso normale, si ricordassero di mostrarsi anche a lei.

Quello che adesso la disturbava era però il silenzio, la mancanza di qualcosa che non riuscì subito a definire. Eppure era semplice: era sparita la voce, la voce rauca dell’istruttore, svanita nel nulla, inghiottita dalle vasche che lei aveva percorso. Si guardò intorno, ma non lo vide. Una volta tanto, non stava redarguendo nessuno, a nessuna di loro avrebbe fatto una scenata trattandola da stupido balenottero, nessuna avrebbe pianto. Chiuse gli occhi, era un momento di cui bisognava godere appieno, prima che, come tutto, passasse. E quando li riaprì, seppe subito che tutto era davvero passato: fu uno strano bagliore ad attirare la sua attenzione, il riflesso del sole su un vetro, sulla finestra dell’ufficio qualche metro più in là.  Erano in due, oltre il vetro, ed erano avvinghiati: i bicipiti dell’istruttore non avrebbe mai potuto confonderli, e nemmeno il rosso tiziano dei capelli di sua sorella. Ma prima che potesse volgere lo sguardo altrove, sorpresa e imbarazzata, un cretino fece un gran salto e si tuffò nella corsia accanto alla sua, sollevando uno spruzzo infinito, uno spruzzo che la portò via con sé in una gocciolante immensità.

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