Giovanna Iorio
Un racconto inedito

Il negozio di camicie

«Noi abbiamo la camicia giusta per ogni uomo che entra da quella porta - dice il mio capo – il vostro lavoro è fargliela trovare, provare e amare»

Ho piegato duemila trecento sessantaquattro camicie. Non mi aspettavo che qualcuno me lo chiedesse. Le mie mani non fanno niente di speciale, non sono quelle di un chirurgo.

Una volta in TV hanno chiesto a un ginecologo quanti bambini ha fatto nascere?  E lui non ha saputo rispondere. Ha detto… Tanti.

Come si fa a non ricordare quanti bambini hai fatto venire al mondo? Come si fa a non contare le cose belle?

Piego camicie da un anno e due mesi. Non so se lo farò per tutta la vita. Però mi piace.

Vendiamo camicie di qualità, i nostri clienti sono molto esigenti. A volte ne provano anche dieci prima di trovare quella giusta. Se non trovano quella che cercano escono dal negozio con l’espressione seccata.

– Non deve succedere,- dice il mio capo. – Noi abbiamo la camicia giusta per ogni uomo che entra da quella porta – gli si illuminano gli occhi quando lo dice – il vostro lavoro è fargliela trovare, provare e amare.

Trovare, provare e amare.

* * *

I primi giorni ero a fianco di Ivana, la più brava. I nuovi lavorano con lei.

La prima cosa che mi ha detto: Fammi vedere le mani. Ma io me le sono messe dietro alla schiena e ho chiesto: Perché?

Ivana non aveva voglia di perdere tempo.

Si è messa a piegare un mucchio di camicie, una montagna azzurra. Ne prendeva una, la stendeva dolcemente sul ripiano in mezzo alla stanza. Solo pochi gesti e ritornava come nuova, quelle braccia disperate si piegavano di nuovo, i bottoni smarriti rientravano docili nelle asole. In pochi minuti e le aveva ripiegate tutte.

* * *

– Mettile negli scaffali.

Mi pentii di non averle fatto vedere le mani. Rimisi a posto le camicie e tornai da lei.

– Eccole.

Mi guardò come se non esistessi, poi abbassò gli occhi e sembrò di nuovo interessata.

– Piccole – disse – allarga le dita… Il palmo è liscio, la pelle è morbida.  Le unghia sono troppo lunghe. Tagliatele. Fammi vedere come le muovi, piegane una.

* * *

Mi ha dato una camicia viola spiegazzata. Un colore che odio.

– Ha ragione a non averla comprata… – dissi seccata.

Provai a seguire i segni delle pieghe ma non voleva tornare a posto.

– Accidenti. Non ci riesco.

– È una stronza – disse ridendo un’altra commessa.  Ivana si avvicinò e cominciò a dirmi quello che dovevo fare.

– Accarezzala. Senti il tessuto sotto le dita. L’hanno appena buttata per terra, è finita sotto i piedi, l’hanno fatta sentire brutta. Amala un po’ e vedrai che si piega.

* * *

Per un mese non ho fatto altro che raccogliere camicie gettate nelle cabine, le maniche abbracciate in una strana lotta, stropicciate, respinte, brutte.

Mi mettevo in un angolo, lontana dagli altri, e provavo a…  ad amarle. Per una camicia potevo impiegare anche ore. Poi arrivava Ivana, la sfiorava con le dita e faceva di no con la testa.

– Ripiegala.

Ho imparato così.

* * *

Poi tornavo a casa, mia madre in cucina e mio padre seduto con la tuta dell’officina ancora addosso.

– Com’è andata?

– Devo piegare stupide camicie tutto il giorno.

– Quando me ne porti una?

E mia madre rispondeva: – E che ci devi fare?

– Voglio portarti a ballare…

* * *

Mio padre aveva solo una camicia bianca, con le maniche lunghe per le occasioni speciali, quando mia madre voleva farlo sembrare elegante.

Non era mai entrato in un negozio di camicie.

Le tute azzurre da operaio, quelle soltanto gli piacevano. Ne aveva sei, una per ogni giorno della settimana. Il sabato sera mia madre gliele lavava tutte insieme. Sul filo del bucato, si riposavano.

Poi mio padre è morto. All’improvviso. Come uno dei suoi motori difettosi. Le tute sono rimaste sul filo per tre giorni.

Mia madre ha preso dall’armadio la camicia bianca, aveva il colletto rovinato. Ho fatto una corsa al negozio, c’era Ivana che mi aspettava con le lacrime agli occhi. Aveva preso una camicia azzurra

– Ecco, è la più bella.

L’ho portata a casa, in una scatola bianca.  Mia madre quando ho aperto la scatola si è messa a piangere

Gliel’abbiamo messa insieme. Prima una manica, poi l’altra. Poi, uno ad uno, i piccoli bottoni di perla.

Dopo il funerale, sono tornata al negozio. Ivana mi ha sorriso. Ha detto che ero diventata brava. Potevo servire i clienti.

* * *

Ho piegato duemila trecento sessantaquattro camicie. Non mi aspettavo che qualcuno me lo chiedesse. Non faccio un lavoro difficile. Le mie mani non fanno niente di speciale, non sono quelle di un chirurgo. Ma io so amare le camicie.

Accanto al titolo: “La stiratrice” di Pablo Picasso; New York, Guggenheim Museum, 1904.

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