Danilo Maestosi
Al Museo della Fondazione Roma

Il circo Kokocinski

Una grande personale dell'artista metà slavo e metà sudamericano ma da anni attivo in Italia ripercorre tutto il suo percorso creativo, fatto di vite e di volti nascosti dietro alle maschere dei clown

La sua compagna lo trascina per le sale, proteggendolo come un bambino indifeso dall’assedio dei complimenti, delle domande, delle interviste. E lui Alessandro Kokocinski nasconde con dignità e pudore i suoi malanni, un sorriso accogliente per tutti. Il busto impettito, come gli hanno insegnato quando faceva il cavallerizzo e girava il Sud America con un circo, a compensare la stanchezza di un’operazione che lo ha molto fiaccato. Mezza faccia cancellata dagli occhiali neri dietro i quali la vista ha cominciato a tradirlo e a perdere contorni. Un calvario gli ultimi tre anni per uno che vive la pittura con la testa ed il corpo, che si nutre e la nutre di sguardi.

È un impresa questa grande mostra con cui Alessandro Kokocinski, sessantotto anni, torna in scena a Roma fino al primo novembre in uno spazio grandi firme come il museo del Corso della Fondazione Roma di Emmanuele Emanuele, a confermare il titolo di maestro internazionale dell’arte di figura, conquistato in quasi mezzo secolo di scesa in campo. Perché, a dare corpo a questa monografica sono in gran parte lavori recenti, realizzati sfidando le sue precarie condizioni di salute nello studio di Tuscania, quella chiesa sconsacrata nella quale ha trovato rifugio e scoperto la terza dimensione della scultura, che ha rivoluzionato il suo modo di raccontarsi. Opere inedite cui fanno da contrappunto opere che segnano il cammino e gli scatti della sua carriera a partire dagli anni settanta, quando Kokocinsky, figlio di due slavi fuggiti d’oltrecortina, una gioventù da migrante lui stesso, costretto all’esilio prima dall’Argentina e poi dal Cile precipitati nell’orrore di due spietate dittature, approdò e trovò patria a Roma. A cucirli insieme un tema e un titolo, «la Maschera e il volto», che circoscrivono il territorio della sua esplorazione al circo e al teatro, punti di partenza e d’approdo della sua biografia d’autore e scenografo. Specchi metaforici della sua vita e di quella di ogni uomo, costretti come siamo a dar spettacolo e far da spettatori in un mondo sublime e crudele, insensato e carico di attese. Un copione di poesia e ferocia, angoscia, passione e divertimento che i suoi occhi malati non hanno avuto bisogno di leggere o ripassare. Basta e avanza la sua memoria che scendendo nel paradiso-inferno del proprio sguardo interiore ha scelto come angelo guida la figura del clown.

kokocinski2Lo sberleffo come ragion d’essere, un ghigno che è insieme tristezza, stupore, irriverenza. Commedia e tragedia. Kokocinski le evoca entrambe modellando senza pietà in terracotta, intrisa di pennellate di smalto bianco a restituire le tracce del cerone, la faccia di un leggendario clown come Grock. Un campionario di smorfie che nella sala d’ingresso fa da controcanto alla figura cupa di un altro clown senza nome che ha inchiodato a mò di fondale a chiudere la scena: sangue raggrumato al posto della biacca, le mani ridotte a monscherini anneriti.

La tavolozza del buio e dell’orrore è a mio avviso quella che ha ispirato a Kokocinski le opere più intense. Come quelle tele d’inizio carriera che sono state il suo primo biglietto da visita e aggiornavano gli orrori dei Capricci di Goya raccontando l’universo soffocante di torture, ipocrisie dei regimi di Videla e Pinochet. Giusto sgranare lungo il percorso queste tele d’esordio come pietre di paragone per farci toccare con gli occhi quanto con il tempo lo stile di Kokocinski sia cambiato, pur rimanendo fedele a se stesso e al suo modo poetico di fare anima. La pennellata si è sfarinata a imprimere tracce di sporcizia e fatica, come nella struggente serie di quadri dedicati a Pulcinella, dove la sagoma stessa del burattino galleggia in una nebbia bianca e sfilacciata come il suo futuro di eterno capro espiatorio. E nella nebbia di uno dei quadri emerge come impronta stessa degli orrori che attraversa con la sua leggerezza una testa decapitata  I colori si sono accesi, senza mai rinnegare l’ombra, impastandosi sempre più spesso con i segni di altri materiali: come in quel prorompente pagliaccio dalle maniche a sbuffo che ci esplode addosso un disagio e un’allegria di un rosso fuoco. Lo spazio stesso della tela si è estroflesso ad ospitare accanto a figure e dettagli a due dimensioni altri personaggi, altre forme sbalzate a rilievo. Con risultati a volte di grande effetto come nelle tavole, esposte in un siparietto a parte, in cui declina in tutte le sue sfumature d’artificio e d’incanto la maschera slava di Petruskha.

E altri che ci lasciano più freddi, quando il ricorso alla scultura, che è scoperta relativamente recente, prende la mano all’artista, sollecita più la sua vena e fantasia di teatrante che la sua sottigliezza d’autore. E il gioco delle forme addolcito perde così profondità e mistero, troppo esplicita la voglia di coinvolgere e farsi capire, come se quelle figure alate, quei volti levigati, quei corpi di pagliacci a tutto tondo fossero studiati calcolando la distanza di uno spettatore di teatro e non il contatto ravvicinato di un visitatore di museo.

Cadute d’enfasi che accompagnano sempre più spesso Kokocinski in quest’ultima fase di carriera ma si trascinano comunque appresso leggerezza ed eleganza. A compensarle e a fare in ogni caso di questa mostra occasione da non perdere contribuiscono i piccoli gioielli delle opere su carta, che la regia per palati forti dell’allestimento, format ricorrente al museo del Coro, relega purtroppo ai margini. Schizzi, acquarelli, disegni, libri d’arte, istallazioni in miniatura. Opere che sembrano sbozzate a riflettori spenti, quando il circo ha chiuso i battenti e, calato il sipario, clown ed acrobati cominciano a togliersi il cerone e ci mostrano i loro volti più veri.

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