Paolo Petroni
A proposito del «Paese che manca»

Lo specchio di Monticchiello

A Monticchiello, da 49 anni, ogni estate va in scena un "autodramma" che ritrae perfettamente l'identità della comunità che lo crea e l'interpreta. La quintessenza del teatro popolare

Questo non è un paese per giovani, non offre nulla al presente e al futuro, ma non è neanche un paese per vecchi e quindi appare naturale che gli abitanti si sentano dire «Non siete, non siete, non siete», come recita la battuta finale de Il paese che manca l’ultimo spettacolo realizzato e recitato dalla gente di Monticchiello tutte le sere sino a ferragosto in piazza, accanto al bel Duomo di questo piccolissimo paese medioevale, chiuso nella cinta delle sue mura, su un colle della Val d’Orcia vicino a Pienza (Siena). E il posto vale una gita, col valore aggiunto del teatro, durante il quale si possono gustare anche i cibi locali cucinati sempre dalla gente del posto e serviti alla taverna del Bronzone.

Sono «residenti in zona marginale» gli abitanti di questo borgo, sempre più privati dei servizi essenziali, tagliati fuori del mondo e così denunciano la loro possibile perdita di dignità e identità, cittadini di serie B, isolati e dimenticati, e la denuncia avviene, come accade da 49 anni, attraverso il teatro, portando in scena  le proprie storie, realizzandole con l’aiuto, la scrittura e la regia di Andrea Cresti, che è uno di loro, anima da molti anni del cosiddetto «Teatro povero».

La bellezza di questo «Teatro povero» nel trascorre degli anni è proprio nel suo essere come non mai specchio della società da cui nasce, momento di denuncia e riflessione, di presa di coscienza, e, assieme, momento in cui ci si ricollega alle radici, si fa rivivere il passato attraverso i ricordi e la lingua, «eramo 5 sorelle», «dai, aitami», «s’è inguastita», col suo suono arcaico e vero. Ed è con questi caratteri che la comunità, dove la maggioranza dei vecchi, che diedero vita al teatro quando i ritmi della vita erano diversi, sono scomparsi e i giovani hanno poco tempo da dedicargli, si avvia a festeggiare l’anno prossimo i 50 anni del suo mettersi in piazza con quelli che Strehler definì «autodrammi». Una ricorrenza che dovrà essere momento di ricordi e testimonianze, ma soprattutto di riflessioni e capacità di elaborare ipotesi sul futuro, inevitabilmente diverso.

Monticchiello 2015Nella storia della lunga resistenza alla sopravvivenza di Monticchiello attraverso il suo teatro, certi temi, certe paure ritornano negli anni, il potere magari cambia ma le leggi economiche sono sempre le stesse e la crisi le ha inasprite, così ecco che in questo Il paese che manca si trova qualcosa di Quota 300, spettacolo del 1999 sul tema attualissimo della razionalizzazione dell’impiego delle risorse secondo rigidi criteri di economicità, al punto che, al di sotto di determinate soglie, non è più giustificato erogare anche i servizi più essenziali e, al limite, mantenere in vita comunità troppo esigue.

Il pretesto attorno a cui ruota lo spettacolo di quest’anno, nato mentre arrivava l’annuncio della chiusura dell’Ufficio Postale, che già era aperto solo due mezze giornate a settimana, e costruito sugli interventi di vecchi e giovani, di chi è sfiduciato e pessimista e di chi vuole continuare a sperare nel futuro, è la festa di compleanno dei vent’anni dell’unico ragazzo rimasto in paese, personaggio col nome di Gigino, ma in realtà Jacopo Balbi che si è ritrovato protagonista di un lavoro che, comunque, risulta sempre molto corale e costruito in bilico tra il passato contadino, duro ma pieno di speranza, in contatto con la natura e fatto di solidarietà tra tutti (qui ne parlano due comari mentre impastano la farina per i dolci della festa), e le incertezze d’oggi, con i valori che cambiano, i rapporti che si disgregano, i telefonini sempre in mano ai più giovani, che parlano solo di esperienze fatte o progetti da realizzare lontano, magari all’estero.

La recita, più compatta e lineare di altre volte, più cronachistica e assieme più di confronto di idee, di caratteri, di chi è legato al passato e di chi vuol guardare al futuro, precipita davanti all’incalzare dei fati in un sogno in cui alcune voci annunciano «Siete disconnessi» – «Siamo entrati nell’era della convenienza universale» – «Il Governo del Paese si è costituito in S.p.A.» – «Nelle zone dismesse sono stati tagliati tutti i servizi», sino al finale fatale «Non siete», anche se poi segue un’ultima scena con i tappi che saltano e il brindisi per Gigino, che non si sa se resterà o partirà anche lui, se si fa festa nel segno della speranza o se si beve a un nuovo, ultimo addio, mentre tra i paesani si aggira un giocattolaio, quasi un fantasma, un misterioso artigiano che costruisce i suoi oggetti col legno ed è sempre pronto ad aiutare chi ha bisogno, come era una volta.

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