Pasquale Di Palmo
Due libri di Giancarlo Pontiggia

Luce mediterranea

Sottrarre la parola «al frastuono della lingua comune» recuperando la dimensione lirica osteggiata dal modernismo. È uno degli obiettivi di Pontiggia, come testimoniano tutta la sua produzione poetica ora raccolta in volume e gli “Undici dialoghi sulla poesia”

Con il passare del tempo la figura di Giancarlo Pontiggia spicca sempre più come una delle più rappresentative del panorama poetico di quest’avaro scorcio di millennio. Forse si può fare solo qualche nome che possa stargli alla pari sul piano della personalità e dei risultati: penso ai casi di Milo De Angelis e dell’ancora poco conosciuto Stefano Simoncelli. Il percorso di Pontiggia ha preso l’abbrivio da posizioni molto diverse rispetto al suo attuale orientamento – tutto teso al recupero di una compostezza classica – condividendo con De Angelis l’esperienza formativa della rivista “Niebo” e approdando, insieme a Enzo Di Mauro, all’allestimento di una storica antologia intitolata La parola innamorata, pubblicata da Feltrinelli nel 1978, che si proponeva, per usare le parole dello stesso Pontiggia, di «restituire la poesia alla poesia, [per] liberarla da quelle incrostazioni di natura ideologica o sperimentale (il Sessantotto, le Neoavanguardie) che l’avevano imprigionata nel corso degli ultimi quindici o vent’anni».

Pontiggia ha sempre pubblicato con estrema parsimonia, sottraendosi alla tendenza pressoché generalizzata di stampare il più possibile, con la convinzione che tale presupposto possa costituire la maniera più sicura per essere sempre sulla cresta dell’onda. Non è un caso che, nonostante il suo nome circoli sin dalla fine degli anni Settanta, Pontiggia abbia dato alle stampe soltanto due raccolte poetiche, rispettivamente nel 1998 (Con parole remote) e nel 2005 (Bosco del tempo), entrambe edite per i tipi di Guanda.

pontiggiaÈ perciò da salutare con soddisfazione l’uscita di due libri che sono, sotto certi aspetti, complementari: Origini. Poesie 1998-2010 (Interlinea Edizioni, 248 pagine, 24 euro) e Undici dialoghi sulla poesia (La vita felice, 112 pagine, 14 euro). Il primo volume raccoglie tutta la produzione poetica dell’autore milanese, corredata da una congrua sezione di liriche “disperse”, da un apparato critico che annovera contributi di Roberta Bertozzi, Massimo Morasso, Daniele Piccini e Massimo Raffaeli e da una ricca bibliografia. Abbiamo così l’opportunità di misurarci con una parola poetica che rinvia a una pronuncia semplice e controllata, volatile e lieve, che disdegna sia le derive di un virtuosismo gratuito e anacronistico sia l’approdo al frammento come forma di rivolta novecentesca contro il senso e il significato («annichilire il senso è l’ossessione dei miei contemporanei» asserisce l’autore).

Non è un caso che in una delle interviste incluse in Undici dialoghi sulla poesia, Pontiggia dichiari: «Il frammento è un’invenzione del Novecento: l’esperienza di una parola che non ha più bisogno di contesti, di lettori; assoluta, autoreferenziale; ossessivamente chiusa in sé stessa; idiolettica. Oggi sono convinto che sia stata una strada sbagliata, senza vie d’uscita». Rimbaud con il suo celebre assunto «bisogna essere assolutamente moderni» ha aperto la strada a una serie di sperimentazioni che, a lungo andare, hanno rivelato tutta la loro stereotipata ovvietà. C’è stata una sorta di competizione nel voler superare a tutti i costi determinati limiti, moltiplicando le energie al fine di rendere la parola sempre più inefficace e involuta. D’altro canto è significativo che una delle raccolte saggistiche di Pontiggia si intitoli Contro il romanticismo (Edizioni Medusa, 2002), quasi a voler rimarcare l’intento polemico sotteso in questo recupero di una dizione classica contrapposta alle “secche” di una poetica vissuta all’insegna di un ego narcisistico e ripiegato sulle proprie effimere implicazioni.

È logico che, con simili presupposti, l’opera del poeta milanese si ispiri soprattutto alla compostezza dei classici greci e latini, di cui è valente conoscitore e traduttore (ha pubblicato versioni da Pindaro, Sallustio, Rutilio Damaziano e dai Disticha Catonis). Franco Manzoni, in un recente articolo apparso sul Corriere della Sera, ha scritto al riguardo: «Tuttavia, in antitesi con il dettato orfico, il neoromanticismo, il minimalismo prosastico, la poesia civile, le neoavanguardie, Pontiggia decise poi di attingere alla forza dei classici greci e latini e, nel tradurli e insegnarli, se vogliamo, di emularli». I temi mitopoietici della luce (una luce solare, abbagliante, mediterranea, sulla quale Pontiggia disquisisce a più riprese nel libro di interviste), del silenzio, del tempo cadenzato sugli intervalli della parola, si configurano come essenziali alla poetica stessa dell’autore milanese di cui proponiamo la lirica intitolata D’estate, ogni mattina, mi levavo:

D’estate, ogni mattina, mi levavo
all’alba, tra la fresca brina: erano,
in cielo, uccelli misteriosi
che stridevano, e un’aria pungente, aspra
che mi rapiva. Plinio leggevo, il Giovane,
in quelle albe, le sue epistole
soffuse di una verde ombra muschiosa,
come un criptoportico nell’ora
verde della prima mattina. Passavano
le ore, di quegli anni troppo lontani,
presagendo un umile destino, com’è stato.
Anche oggi, talvolta, ripensandoci,
provo lo stesso senso docile, stremato
di una vita sospesa in un suo strano

suono, in un tempo semplice, inviolato.

Pontiggia sostiene che «in poesia s’impone l’ipnotica, rabdomantica potenza della parola che ti tira a sé, che segui in virtù di una fascinazione, di un’immagine, di qualcosa che in parte – al momento in cui la segui – ti sfugge. Nessuna parola può essere ridotta a progetto, dichiarata prima che esista, pena una scrittura mentale, intellettualistica, astratta». Sottrarre la parola «al frastuono della lingua comune», come osserva lo stesso autore, sarà dunque uno degli obbiettivi primari di questa poetica che, peraltro, non presuppone una frattura con la realtà del proprio tempo, ma cerca di incistarsi in essa in maniera più netta e necessaria proprio in virtù di tale contrapposizione, recuperando quella dimensione lirica che il modernismo ha dichiaratamente osteggiato.

Osserva Pontiggia: «Non che la letteratura debba eludere la storia, ma certo non è fatta per registrarla in modo notarile, tanto meno per onorarla; compito di chi scrive, e soprattutto dei poeti, è far emergere le forze misteriose della vita, giungere ai nuclei fondanti dell’esistere: il potere sovrano della bellezza e dell’amore; la gioia pura di guardare un cielo, di toccare la materia delle cose, di sentirsi vivere insomma». Che cos’altro aggiungere? Chapeau.

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