Angela Scarparo
Tra arte e cinema

Le ombre di Venezia

Presentati a Roma “Via della Croce” e “Venezia Salva”, due film di Serena Nono che nella storia passata rintracciano i segni del presente. Per capire che cosa unisce o divide gli individui

Agibile dal 2003, la Sala Trevi di Vicolo del Puttarello a Roma, è nata grazie alla Cineteca Nazionale. Si tratta di una piccola sala dove è possibile rivedere film che ci sono sfuggiti, rassegne o importanti festival. Qualche giorno fa proiettavano lì, uno appresso all’altro, i due film che Serena Nono ha realizzato tra il 2009 e il 2013, Via della Croce Venezia Salva. In comune, le due opere hanno la scelta, non comune, di far recitare attori non professionisti. Scelta rafforzata dal legame di amicizia che, come ha spiegato la regista in una breve introduzione ai film, esiste fra lei e le persone che hanno collaborato ai film. Legame che è anche spinta a realizzare l’opera ed è quindi scelta esistenziale, oltre che modo di fare e produrre arte. Come in Pasolini e Rossellini, in Nono, la possibilità di fare film con attori non professionisti non è legata solo alla maggiore immediatezza e naturalezza degli interpreti, ma anche a una precisa volontà tutta politica, di dare spazio alla marginalità, di tirarla fuori dall’ombra, se non proprio di rivendicarla.

Come nei fratelli Taviani (mi riferisco al recente film Cesare deve morire) c’è nel lavoro di questa autrice una denuncia delle modifiche in peggio – anche fisiche – che la povertà, come le marginalità, impongono.Le persone con cui Nono ha realizzato i film, provengono per lo più da case di accoglienza, enti che ospitano senza fissa dimora, e sono quasi tutte, a tenere conto del loro status giuridico-sociale, dei e delle senza tetto.

Via della croceNella prima opera, Via della Croce, è narrata la passione di Cristo. Nella seconda – la cui sceneggiatura è tratta dal dramma Venezia Salva di Simon Weil ed è stata prodotta da David Riondino – è raccontato il tentato Sacco, ai danni di Venezia, compiuto dagli Spagnoli nel 1618.

Più semplice nella struttura il primo, ha in comune col secondo la circostanza di essere stato girato a Venezia. Le esperienze di vita degli interpreti, raccontate da loro stessi, e che si alternano alla storia sacra, rendono potente la narrazione. Di cosa parlano, queste persone? Se c’è chi esprime la sua riconoscenza nei confronti dell’associazione che lo ospita, dichiarandogli addirittura il suo amore, c’è a fargli da contrappeso chi, dalle pagine di un diario legge vicende che, nella loro quotidianità, potrebbero essere le nostre.

E in questo Nono è artista vera, oltre che generosa. L’esperienza del cinema diventa occasione di compartecipazione al dolore altrui, come alle altrui gioie, presa di parola di una sofferenza destinata altrimenti a rimanere muta. La macchina da presa si fa strumento di accoglienza e serve a descrivere percorsi esistenziali, o desideri, come per esempio, quello di un giovane africano, che vorrebbe diventare prete; desiderio che contrasta – cosi come è organizzato il sacerdozio – con quello per i corpi femminili, di cui il giovane ci racconta. Scarna la messinscena, i protagonisti sembrano vestiti per una recita, in un gioco da bambini. La mediazione avviene attraverso l’arte. Il gioco consiste nel rifare i quadri del Caravaggio, mentre alle loro spalle passa, come su uno schermo, l’azione di un vero Tintoretto. Attorno a loro – come forse solo Testori di recente, con quei suoi spettacoli che raccontavano storie di tossicomani, tutti svolti nella Stazione Centrale, a Milano – per le vie di Venezia, donne che vanno a fare la spesa passano di fianco agli attori, frettolose.

Non è solo l’eccezionale ambientazione, oltre che i costumi, a dare al secondo film, Venezia salva – girato fra Palazzo Ducale e l’Arsenale – un tono di maggiore compattezza. I protagonisti si sentono più a loro agio davanti alla macchina da presa, alcuni hanno trovato un lavoro e se ne sono andati, altre e altri se ne sono aggiunti, ci racconta Serena.

Un’annotazione per ciò che riguarda il Sacco di Venezia: pare non ci siano documenti, ad attestare la verità storica del testo di Weil. Ma non questo è importante per la vicenda, che narra piuttosto della scelta, difficile dal punto di vista umano ed esistenziale che Jaffier, ufficiale provenzale fa, di tradire gli amici. Lo fa per evitare la rovina di Venezia, la distruzione della città e dei veneziani.

È giusto tradire i compagni, le scelte fatte, la classe di appartenenza, se questo serve ad evitare la distruzione di tante vite umane? Queste le domande che restano. Di cosa è fatta la pietà? Alle altre creature ci lega davvero solo l’appartenenza alla stessa famiglia, alla stessa comunità o c’è qualcosa che supera i limiti parentali e geografici a tenere assieme uomini e donne?Come dice Renaud – il gentiluomo cui è affidata la missione, riferendosi ai veneziani – a Jaffier, per rafforzarlo nel suo odio: «Credono di esistere e sono ombre». Ma Jaffier, con la sua scelta, rivendica il diritto per tutti i viventi – opere d’arte comprese – a esistere, non solo a una parte di essi. Solo al regno dei morti toccherebbe l’ombra.

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