Pier Mario Fasanotti
Napoleone contro tutti

La melma di Waterloo

A duecento anni dalla memorabile battaglia che cambiò radicalmente il destino dell'Europa, rallentando la primavera dei popoli, due libri ricostruiscono errori e meriti

Data: 18 giugno 1815. Duecento anni fa. Waterloo non fu una battaglia, ma la battaglia. Motivo: dopo di essa venne scardinato l’intero l’assetto dell’Europa. È come dire Stalingrado (1943), inizio della sconfitta dei nazisti; oppure Lepanto (1571), che fermò l’avanzata musulmana; oppure ancora Cartagine (146 a.C.: fine della terza guerra punica), la cui rasa al suolo decretò l’egemonia romana nel Mediterraneo e nel vicino Oriente. Waterloo non fu una tappa, un episodio, ma l’inizio di un nuovo profilo geo-politico del vecchio continente, che avrebbe potuto rimanere, chissà per quanti decenni, sotto la mano libertaria e pesante di Napoleone Bonaparte, il corso che aveva il sogno di unificare l’Europa, costituendo attorno ad esso un grande impero, a tutto scapito dei tedeschi, degli inglesi, dei prussiani e dei loro alleati (per esempio gli olandesi).

La battaglia scoppiò in Belgio, paese (appartenente al “Regno unito dei paesi Bassi”) considerato tradizionalmente scialbo, o comunque una bizzarra e singolare propaggine della Francia.  Prima di esaminare le fasi dello scontro fatale, una curiosità. A testimonianza che i diverbi europei (oggi così attuale e di maggior portata) che Napoleone voleva spazzare via, permangono ancora. Il Belgio non si ferma davanti all’altolà della Francia: la moneta commemorativa per i 200 anni della battaglia di Waterloo ci sarà, ma avrà un valore anomalo, quello di 2,5 euro. Parigi si era opposta strenuamente ad una moneta da due euro per ricordare la storica battaglia vicino Bruxelles che segnò la sconfitta definitiva di Napoleone Bonaparte, ponendo il veto ad un progetto «suscettibile di provocare reazioni sfavorevoli in Francia». Prima di fare marcia indietro, la zecca reale di Bruxelles ha coniato ormai  180mila monete che riportano su una delle due facce “la butte du lion”, la collinetta artificiale eretta per ricordo sul terreno della battaglia. I belgi hanno adottato una soluzione “creativa”, ricorrendo ad una regola europea poco conosciuta che permette ai paesi dell’eurozona di emettere monete di loro scelta a patto che abbiano un valore “anomalo”. La moneta di Waterloo, dal curioso valore di 2,5 euro, potrà circolare solo in Belgio.

waterloo1Tornado a Mont-Saint- Jean, nei Paesi Bassi, vicino a Waterloo, diamo un occhiata alle forze in campo. I francesi  disponevano di 44 mila uomini con 266 cannoni. Dall’altra parte 67.700 anglo tedeschi con 184 cannoni, affiancati da 48 mila prussiani. C’è da segnalare che in questi giorni sulla catastrofe, militare e umana, di Waterloo, sono usciti due ottimi e documentati libri. Il primo è quello della Leg Editrice, Waterloo. La battaglia decisiva, a cura del colonnello Nick Lipscombe. I testi sono Jeremy Black, Julian Spilsbury, Philip Haythornthwaite, Mark Adkin, Ian Fletcher, Charles Esdaile, Andrew Field  Huw Davies. Prefazione di Peter Snow. Il secondo omonimo volume è edito dalla editrice Salerno.

L’inizio delle atroci ostilità ebbe alle spalle grandi errori diplomatici. Napoleone salpò in gran segreto dall’isola d’Elba (dove fece cose egregie a vantaggio della popolazione) il 26 febbraio 1815. Intendeva riprendere i mano le sorti della Francia con l’appoggio (illusorio) dei monarchici,  dei marescialli che lo tradirono rimanendo fedeli a Luigi XVIII, e di alcune potenze europee. Allo sbarco in Francia il generale corso, l’Empereur, equivocò sull’accoglienza festante. L’ex padrone dell’Europa pareva fosse spinto al pacifismo. La diplomazia, che collezionò lettere “rassicuranti”, lo conferma. Ma il Congresso di Vienna, restauratore per antonomasia, si rifiutò di incontrarsi con il Bonaparte, ormai bollato come “nemico pubblico” e “perturbatore” della pax europea. Il 25 marzo l’impero austriaco, l’impero russo, il regno di Prussia e il Regno Unito, assieme a vari stati minori, confermò la cosiddetta “settima coalizione” (risalente al 1814). Austria, Prussia e Russia iniziarono la mobilitazione militare, mentre il Regno Unito promise lo stanziamento di cinque milioni di sterline. Le truppe russe e austriache, oltre quelle britanniche stanziate nel vecchio continente, riconobbero come comandante supremo il duca di Wellington. Bonaparte si risolse a  guardare il faccia la realtà: radunò 200 mila soldati (in gran parte veterani delle campagne napoleoniche, affiancati da pochi soldati esperti), decretò la coscrizione obbligatoria («per difendere la patria»). Infine la decisione: sorprendere con un subitaneo attacco in Belgio gli avversari (contava sulla Armée du Nord; 124 mila uomini). Napoleone contava sulla sollevazione della popolazione belga ma si sbagliò. Da parte avversa, la settima coalizione prese sottogamba  le manovre del corso, manifestando sicurezza. La moglie del temibile generale prussiano Blucher ricevette una lettera dal marito, che assicurava senza mezzi termini: «Bonaparte non ci attaccherà… gli eserciti coalizzati presto entreranno in Francia». Una grande leggerezza politico-strategica. Ancora una volta si sottovalutarono le fulminee mosse del “piccoletto” vestito da sovrano e sofferente d’ulcera ( di qui la mano al costato, sotto  la divisa).

waterloo2All’inizio l’ex tenente di Parigi (cominciò così la rapida escalation militar- politica),  contava nell’attacco di sorpresa contro le forse avverse non ancora coese, volendo avanzare su Charleroy. Intendeva impadronirsi della “posizione centrale” (era la sua fissazione). All’inizio fu un successo per le truppe tricolori. Wellington rimase sorpreso, e ordinò marce forzate verso Quatre-Bras. Napoleone,  ebbe modo di constatare lo stato di fatto militare sul campo: intuì l’imponenza dei nemici. Contemporaneamente si scatenarono scontri, a tutto danno del generale prussiano (rimasto solo) che non si era coordinato con Wellington. Il maresciallo Grouchy aveva ricevuto l’ordine (con due corpi d’armata e con la cavalleria) di inseguire i prussiani per annientarli («senza perderli di vista»), mentre intendeva concentrare le forze contro il nemico britannico, rimasto sguarnito del fianco sinistro: e così decise la ritirata a Mont- Saint-Michel. Napoleone, contrattaccando, fu rallentato da una forte pioggia. Il generale prese l’iniziativa, in assenza del collega Blucher, di marciare verso nord a sostegno di Wellington. Notte di stallo per stanchezza e  un mare di fango. Poco dopo l’alba la pioggia ridusse la sua intensità.

Finalmente Blucher tornò in quella melma di Waterloo, (modesto pendio di 800 mq). Nella zona in salita Napoleone sistemò gran parte della sua artiglieria. Si deve ammettere che gli inglesi (il 35 per cento dell’intera armata, anche grazie ai mercenari) rappresentavano l’elemento più solido dello schieramento antibonapartista: molto combattivi. L’ala destra di Wellington era “coperta”, a opera del visconte di Hill. Il generale britanno si trovò a scegliere la parte più favorevole e protetta del terreno di scontro. Ecco la mossa vincente, a dispetto della esperienza dei veterani francesi. Da fonti dell’armée di Parigi: «Che soldati! Erano… una legione di eroi e di demoni». Malgrado i dissidi e le incomprensione degli altri ufficiali). Inoltre, nelle fasi iniziali dello scontro, Napoleone, con le sue 15 sciabole e con 48 mila baionette, manifestò ancora una volta la sua superiore abilità strategica, ritenendo Wellington «debole e passivo».

Tornò a spuntare il sole, dopo le otto ore di pioggia battente. Napoleone, ex ufficiale d’artiglieria, confidava nei suoi cannoni. Sottovalutò la prudenza del maresciallo Soult, che aveva consigliato un parziale ritiro dell’armata. Il “capo” supremo, sempre in ispezione lungo le sue linee, commise l’errore di attaccare gli alleati, trascurando manovre contro l’ala destra del nemico e rifiutando di aggirare ala sinistra. Wellington, alzatosi alle sei, montò sul cavallo Copenaghen, e richiamò i 17 mila uomini del principe Federico. Alle 11 ordinò le prime salve d’artiglierie: la battaglia di Watererloo era iniziata ufficialmente. Girolamo Bonaparte, che voleva occupare un castello, fu respinto. Napoleone andò in suo aiuto, ma il castello non cadde mai in mano francese. L’Empereur si accorse nel frattempo dell’avvicinamento dei prussiani, ma decise di continuare la battaglia. I francesi fecero entrare in  azione la Grande Batterie: tre colpi al minuto. Cannoni piazzati sul declivio. Nel frattempo i 14 mila francesi del primo corpo d’armata sferrarono l’attacco.

Senza volerci addentrare nelle fasi altalenanti del grande scontro s’ha da dire che Napoleone arrivò alla conclusione dell’inevitabile sconfitta. Attribuendola in gran parte ai sui generali (vedasi il memoriale di Sant’Elena, ultimo blindatissimo luogo di esilio). Alcuni storici misero in risalto le sue precarie condizioni di salute, unitamente a incontestabili e presuntosi errori tattici. L’ex padrone dell’Europa criticò aspramente Wellington, «destinato alla sconfitta» se non ci fosse stato il decisivo appunto dei prussiani. Wellington, scrisse nel memoriale, «Dovrebbe accendere un bel cero al generale Blucher».

Prima di raggiungere il definitivo esilio, Napoleone tentò di organizzare un nuovo esercito. Indomabile il soldato corso, dopo gli eroismi e gli errori della «cupa pianura» (Morne plaine). Ma il Parlamento gli era apertamente ostile, così da indurlo, il 23 giugno, a presentare l’atto di abdicazione, lasciando la Francia al governo provvisorio di Joseph Fouché.

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