Nicola Fano
A proposito di "Doppio scatto"

Frammenti di Napoli

Silvio Perrella ha girato la sua città, Napoli, con un notes e una piccola fotocamera, poi ha riunito tutto in un libro che rivela la metropoli depurata dalla sua leggenda

Ne I sommersi e i salvati di Primo Levi c’è una pagina nella quale l’autore spiega di non esser più riuscito, dopo Auschwitz, a camminare altro che con lo sguardo rivolto a terra, in cerca di qualcosa: era una delle tante eredità del Campo, dove qualunque cosa (un sasso, un ferro, una cicca, un bottone) poteva garantire un frammento in più di sopravvivenza. È una pagina illuminante, perché non è facile trovare riflessioni tanto lucide e spietate sull’atto di camminare. E sul come si cammina: la barbarie nazista aveva costretto Primo Levi a usare anche le sue camminate per puro spirito di auto-conservazione. Mentre – è sempre Levi a suggerirlo, per converso – per vivere (non sopravvivere) occorrerebbe camminare con lo sguardo rivolto verso l’alto: pienamente verso l’esterno da sé.

perrella doppio scatto3Questo ricordo di lettura m’è tornato in testa – naturalmente – entrando nel nuovo, bel libro di Silvio Perrella (Doppio scatto, Bompiani, 490 pagine, 19 euro), uno scrittore che i lettori di Succedeoggi conoscono bene e del quale, io spero, avranno apprezzato i bellissimi reportage “da lontano” contenuti nel nostro ebook Le parole a piedi. Anche Doppio scatto ospita dei reportage, ma molto, molto particolari. Sono frammenti di immagini che Perrella coglie in prima persona, con la sua semplice fotocamera e poi commenta brevemente, ogni domenica, sul Mattino di Napoli. A ogni foto corrisponde un pensiero: ecco perché doppio scatto. Sennonché l’intero libro va letto come un grande, ricchissimo e privatissimo reportage da Napoli, città dove Perrella ha deciso di vivere molti anni fa e alla quale ha già dedicato uno splendido libro (Giùnapoli, 2006).

E, dunque, prima di tutto: quale città viene fuori? Ecco che si torna al “come camminare” analizzato da Primo Levi: Silvio Perrella cammina con lo sguardo ben rivolto verso l’alto e appunta sulla sua fotocamera (come fosse un notes) particolari dispersi. Ossia tutto ciò che fa di Napoli una città altra – appunto personalissima – rispetto alle convenzioni. Non c’è il barocco, non ci sono i bassi, non c’è Eduardo e non c’è nemmeno Maradona; non ci sono i miracoli e non c’è la cartolina del Vesuvio: la città di Silvio Perrella è un buco nero che ciascuno è chiamato a riempire con le proprie suggestioni. Non a caso si parla sempre e solo di particolari. Perché proprio questo è Napoli: una città che ha perso il suo spirito universale e la sua epica millenaria. Salvo che – suggerisce Perrella – non è detto che ciò sia un male, se si riesce, poi, a ridare un’identità alla città fuori dalla leggenda, senza Pelle putrefatta e senza nuttate che debbono passare. Perrella è uno scrittore di oggi: nel suo Dna non ci sono Prota Giurleo, Di Giacomo o Croce; ci sono semmai Ortese e l’amato La Capria.

perrella doppio scatto2È luogo comune, per i veneziani, spiegare di non essere ancora arrivati all’età della ruota, dal momento che a Venezia, città di scale, muoversi con le ruote semplicemente non è possibile. Ma solo leggendo questi frammenti di Perrella ho capito che lo stesso deve dirsi anche per Napoli, città ben altrimenti sommersa di ruote gommate rispetto a Venezia, eppure nella sua essenza fatta di scale da fare a piedi e che discendono dal Vomero al mare come in un precipizio costante lungo il quale è impossibile fermarsi. Fin qui tutto bene, fin qui tutto bene, si dice precipitando (come nella splendida scena iniziale del film L’odio): ma è un discendere continuo al termine del quale il mare rappresenta una salvezza mortifera. Non a caso, alcune delle foto e delle suggestioni migliori di questo libro sono dedicate al mare: come fosse una prospettiva sempre presente. Anche quando non c’è, quando non bagna Napoli, come appunto diceva Anna Maria Ortese. «All’imbrunire – scrive Perrella – il mare, contenuto dalle banchine, si ferma quasi del tutto; interrompe l’andirivieni delle onde e si mette a pensare. E anche i pesci, nel laggiù equoreo, sono presi da uno strano languore, tanto che alcuni finiscono per addormentarsi».

Insomma, in questo sontuoso libro Silvio Perrella si fa definitivamente scrittore (da critico letterario che era e forse in fondo continuerà ad essere) andando a cogliere nel proprio occhio l’occhio del narratore che reclama dalle cose un senso, non più solo dai libri degli altri. È un percorso creativo che coinvolge altri protagonisti della sua generazione i quali, smessi i panni falsamente rigorosi e ormai non più accettabili delle “scienze della letteratura”, liberano il proprio sguardo in alto e altrove. Esattamente come avrebbe voluto fare Primo Levi, all’epoca ben diversamente ingabbiato com’era dalla “scienza dell’orrore”. Non voglio dire che in letteratura strutturalismo e altri ismi, fino a poco fa, siano stati una prigione ma, certo, liberi si vive meglio.

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