Giacomo Battiato
Da San Brandano a Munch

Sulla tristezza

Nella realtà della nostra vita guardiamo, travolti dal rimpianto, al tempo che è stato e che non è più, e ai luoghi del ricordo. È un lutto continuo, il nostro.
 Uno scrittore riflette su un sentimento

Ecclesiaste: «Molti invero ha ucciso la tristezza, e non c’è utilità in essa». 
Libro dei Proverbi: «Come la tarma al panno, come il tarlo al legno, così nuoce la tristezza al cuore dell’uomo». 
Nell’Antico Testamento, come in molte fondazioni delle religioni, sta la spiegazione dell’origine della tristezza: siamo stati cacciati dal Paradiso, l’abbiamo perduto, abbiamo perduto la condizione immortale, divina, di esseri felici. Siamo tristi e mortali, siamo tristi perché mortali, tristi perché capaci di uccidere il fratello. Siamo orfani del paradiso, la tristezza è la nostra condizione umana contro la quale lottiamo per tutta la vita.

Definizione della tristezza.
 Il Devoto: «Stato di depressione riconducibile a un particolare dolore o a una diffusa e cupa malinconia».
 Più icasticamente, lo Webster dice: «Grief or unhappiness». 
Il Dizionario Etimologico della Lingua Italiana ci informa che è triste chi «… esprime afflizione, è privo di gioia, serenità, piacere e simili». 
Esiste pericolo di vita peggiore? 
“Triste” è anche termine da esecrare. “Tristo” si diceva di persona cattiva. “Triste” è sinonimo di sventurato, sciagurato, malvagio, cattivo. Già in latino “tristis”. Quasi che la tristezza, nel suo abuso, nel suo compiacimento, nel suo estremo trasformasse la propria vittima in pericoloso aggressore.

Tristezza per la perdita di una felicità sconosciuta. La tristezza origina dalla nostalgia di un tempo e di un luogo immaginari che crediamo di avere perduto e che nessun tempo e nessun luogo reali ci possono restituire. In quel tempo e in quel luogo immaginari, noi abbiamo conosciuto la bellezza assoluta, la pace e la gioia senza pericolo, senza minacce, senza rancori, senza fine. Eravamo in un paradiso, lontano nello spazio e nel tempo. Sognato.

Tristezza per la perdita di una felicità conosciuta.
 Nella realtà della nostra vita guardiamo, travolti dal rimpianto, al tempo che è stato e che non è più, e ai luoghi del ricordo. È un lutto continuo, il nostro.
 Non bisogna tornare dove si è già stati, gli zingari lo sanno, rischiamo di soffrire rivedendo quello che abbiamo perduto perché noi siamo cambiati, gli altri sono cambiati, i luoghi sono cambiati, non c’è più lo stesso colore, non c’è più quella vita che pure era nostra. Eppure, il nostro chiacchiericcio ruota sempre intorno ai luoghi e alle ore del passato, e trascorriamo minuti golosi a contemplare vecchie fotografie. Chiudiamo infine l’album e ci ritroviamo con la tristezza che chiamiamo nostalgia.

Tristezza dell’età dell’innocenza. Oggi sono così triste e desolato, quando ero bambino invece, come ero felice quando ero bambino… Molti, quando la tristezza li assale, cercano consolazione nel tempo perduto dell’infanzia, un’età dell’oro di cui conservano il ricordo nella loro cassaforte. Per altri invece, è proprio nell’età dell’innocenza il seme della loro incurabile tristezza. Profondamente infelici sono infatti coloro che devono convivere con un dolore dell’infanzia. Sono stati privati di qualche cosa di prezioso che niente e nessuno riesce loro a restituire. Invecchiano restando fanciulli perché è là, nell’infanzia, il seme del loro male e passano la vita a cercare di ripararlo. Leopardi dice al Garzoncello Scherzoso «Godi, fanciullo mio, stato soave è questo…» e gli spiega che «… cotesta età fiorita è come un giorno d’allegrezza pieno…». Ma nel Canto notturno di un pastore errante dell’Asia usa un altro registro: «Nasce l’uomo a fatica,/ ed è rischio di morte il nascimento./ Prova pena e tormento/ per prima cosa; e in sul principio stesso/ la madre e il genitore/ il prende a consolar dell’esser nato./ Poi che crescendo viene,/ l’uno e l’altro il sostiene, e via pur sempre/ con atti e con parole/ studiasi fargli core,/ e consolarlo dell’umano stato…».

Tristezza dell’abbandono.
 Anna Freud ci racconta, di una sua paziente: «… Una ragazza appassionata di alpinismo si era trovata un giorno a fare una lunga passeggiata sulle Alpi. Fermatasi a riposare vicino a una cascata, dimenticò il berretto nel posto in cui si era momentaneamente attardata. Questa perdita era di per sé insignificante e in un primo momento non sembrò preoccuparla più di tanto. Questo stato d’animocambiò nella notte successiva all’escursione. Mentre giaceva nel suo letto senza riuscire a prendere sonno, fu costretta tutt’a un tratto a pensare al suo berretto perduto, abbandonato, dimenticato nella buia solitudine del paesaggio montano. La desolazione di questa immagine diventò così estrema e intollerabile che si addormentò stremata dai singhiozzi».Noi siamo anche i nostri oggetti perduti. O abbandonati, rifiutati, respinti. La loro tristezza è la nostra tristezza. Tristezza delle nature morte.

La tristezza, madre della poesia e della letteratura.
 La tristezza spinge i passi solitari dell’autore verso la pagina bianca, rimescola i suoi dolori conosciuti e sconosciuti, lo costringe a viaggiare nel buio alla ricerca di verità sovente dolorose e difficili.
 Il Dio di un racconto di Karen Blixen prova della pena per un giovane scrittore scontento del proprio lavoro e per questo gli fa un dono: «Ti darò quei dispiaceri di cui hai bisogno per scrivere i tuoi libri…». Ovidio chiama Tristezze (Tristia) la sua raccolta di poesie dell’esilio, i lamenti «… che, poeta, ho macchiato di pianto». Ha però la forza di ribellarsi: «Eccomi privato della patria e di voi e della casa,/ rapinato di tutto quello che potevano prendere di me/eppure mi accompagno ancora al mio ingegno e lo uso…». Sì, l’atto creativo è la medicina per curare il tormento. Poe, nel Principio Poetico, suggerisce che la tristezza può essere curata dalla poesia e che, elaborando la tristezza, la poesia ne svela la componente di piacere.

Tristezza nella pittura.
 Un manifesto della pittura moderna, un Urlo: il cielo al tramonto è strisciato di rosso sangue sopra l’acqua del fiume, blu e nera; su un ponte, una figura contorta – uomo? donna? bambino? – stringe con le mani il proprio volto vuoto e grida verso di noi la sua disperazione. Un urlo muto, e per questo ancora più assordante.

Tristezza d’amore.
 Molti rapporti sono costruiti su un equivoco: l’illusione di essere amati per se stessi, mentre è l’immagine che si incarna per l’altro a essere oggetto di desiderio. È un equivoco che provoca delusioni strazianti…
 Polonio, parlando di Amleto: «…Respinto, cadde nella tristezza, quindi nel digiuno, quindi nell’insonnia, quindi nella debolezza, quindi nell’allucinazione e per questa china precipitò infine nella follia».

Tristezza della psiche. La paziente psicotica dice: «Perché descrivete l’inferno con fuoco? L’inferno è dove sei gelato, nel tuo vuoto solitario, nella tristezza totale, nel blocco di ghiaccio da dove non riesci a far uscire la tua voce».

PCT (Post-coital tristesse). Galeno dice che «Ogni animale è triste dopo il coito, tranne la femmina dell’uomo e il gallo». La donna, come la madre terra, è ricca di vita e il piacere di prendere e dare la vita è saldo nel suo corpo e nella sua mente. L’uomo ha invece speso la sua «forza vitale» sperimentando così una «piccola morte»; ora si ritrova in una specie di lutto temporaneo, temporaneamente senza più forza, impotente. Per questo, la tristezza post-coitale. Il gallo, lo stupido tra gli animali, sa soltanto compiacersi di se stesso e non conosce la tristezza. Spinoza, nel suo Trattato sull’emendazione dell’Intelletto, alla ricerca del vero bene e della felicità si interroga sul fatto che, dopo essere stata trascinata dal piacere sessuale in uno stato divino, una volta finito di goderne, la mente piomba «nella più grande tristezza».

Tristezza della Storia.
 Non c’è romanzo che lo racconti, non c’è quadro o film che abbia davvero rappresentato ciò che gli uomini sanno fare alla carne dei propri simili. Non è rappresentabile.

Tristezza medievale. Nel magico Medioevo, la fuga dalla tristezza del mondo alla ricerca della felicità pura produce una messe straordinaria di racconti. Una moltitudine di uomini fantasiosi si getta in viaggi verso l’ignoto, percorre terre, mari e fiumi, attraverso mille pericoli; si tratta di uomini pronti a camminare per tutta la vita pur di raggiungere il punto dove la terra si tocca con il cielo ed entrare finalmente in quel paradiso sconosciuto. E conoscerlo. Il celtico Oisin, nel suo lungo peregrinare, incontrò soltanto una ragazza che amò. Il cavaliere irlandese Owen raggiunse un luogo detto dell’espiazione e, attraversatolo, ritornò senza ricordare più nulla. Aroldo, principe di Norvegia, finì in un immenso baratro e anche Gormo, re di Danimarca, partito insieme al suo fido Torkillo, finì con lui massacrato. Di Merlino, che se ne andò su una nave di cristallo in traccia delle isole beate, nulla si sa. San Brandano partì nell’anno 561, spingendosi nell’oceano su una nave leggera. Toccò molte isole, una popolata di pecore bianche giganti, una che isola non era ma uno sterminato pesce nominato Jasconius dal quale fuggì precipitosamente, quando, sentito sul dorso il calore del fuoco che San Brandano aveva acceso, il pesce si cominciò a muovere. Il sant’uomo incontrò anche un’isola dov’erano uccelli parlanti, forse angeli, e poi altre isole ancora popolate di gente bestiale fino a un mare che per troppa tranquillità si era quasi coagulato. Sette anni durò la sua navigazione. Scampò venti impetuosi e mostri marini, uccelli e fabbri che scagliavano ferro arroventato, incontrò anche Giuda, seduto su un sasso in mezzo all’oceano. Giunse infine a un’isola di luce, l’isola fortunata. Scese su quella terra pieno di speranza ma un fiume l’attraversava. Oltre il fiume non poté passare, era invalicabile: proprio là, oltre il fiume, era il paradiso terrestre. San Maclovio fece invano due viaggiassieme al gigante Pregatone. Uggeri il Danese voleva conquistare il paradiso terrestre con un esercito di ventimila uomini, ma si persero e di loro non se ne seppe più nulla. Ugo d’Alvernia, accompagnato da alcuni grifoni, si trovò davanti una nuvola, tenebra scura, era come un muro che non era possibile né distruggere né oltrepassare. Mille altri partirono, Guerrino il Meschino, Eirek, figlio di Thrand, Baldovino da Seburg con il suo amico Poliban, Sant’Amaro e moltissimi ancora intrapresero viaggi interminabili e grandemente perigliosi. Nessuno arrivò all’Isola Felice.

Tristezza americana. Nelle ultime pagine del suo romanzo autobiografico Martin Eden, Jack London descrive la tristezza lacerante del protagonista che lo porterà al suicidio, straordinario suicidio, letterariamente parlando. Eppure Martin Eden era un uomo pieno di vita e di forza e di titanica volontà per riuscire a diventare, contro tutto e contro tutti, da miserabile marinaio analfabeta a poeta e scrittore ricco e famoso.Due sono i motivi della sua finale inesorabile tristezza, uno individualissimo, uno sociale. Primo: la felicità era tutta nella lotta, nella conquista, nel desiderio. Una volta raggiunta la meta, appagato il desiderio, un senso di pieno inutile (o di vuoto incolmabile) lo assale e lo lacera. Secondo: tutti quelli che prima lo scacciavano, deridevano e disprezzavano, compresa l’aristocratica signora che lui amava, ora sono ai suoi piedi. Eppure lui era forse migliore prima, vestito di stracci, che ora, nel lucido smoking. Per questo, dopo aver vinto l’ultima tempesta legato al timone della sua barca, si getta nell’oceano e nuota verso l’abisso… «Da qualche parte, sul fondo, precipitò nell’oscurità. Soltanto questo seppe. Che era precipitato nell’oscurità. E nello stesso istante che lo seppe, cessò di saperlo».

Tristezza di questi nostri anni. A cavalcioni sullo sbalorditivo progresso tecnologico, guardiamo ai fallimenti della morale e della politica, alla desolazione delle guerre e dei genocidi, alla sofferenza di sradicamenti e migrazioni, alla desolazione delle periferie. Cosa dobbiamo fare? Come i nostri antenati imbarcarci alla ricerca, nello spazio, delle isole felici…

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