Pier Mario Fasanotti
Un libro per ricordare la grande editrice

La leggerezza di Elvira

«Ritorno a una cultura “amena”, cioè una cultura in cui il cosiddetto impegno è implicito e non esplicito»: a partire da questa convinzione Elvira Sellerio ha cambiato l'editoria italiana

Capita di rado leggere per intero la storia di una grande donna e rimpiangere di averla finita. Mi riferisco all’editrice Elvira Sellerio, morta nel 2010 a 74 anni. La memoria di Elvira (Sellerio, 260 pagine, 10 euro) è un insieme di testimonianze di chi la conosceva bene e le è stato vicino. Si parte dalla casa editrice che porta il suo nome. Anno di fondazione: 1969, dopo una lunga conversazione di Elvira con il marito fotografo Enzo, Leonardo Sciascia e l’antropologo Antonino Buttitta. L’intento, condiviso da tutti, fu riassunto dal narratore illuminista di Racalmuto: «Ritorno a una cultura “amena”, cioè una cultura in cui il cosiddetto impegno è implicito e non esplicito, quindi una cultura della leggerezza, che non rinuncia all’eleganza, una cultura delle idee, sì, ma in forma di cose belle».

Elvira, laureata in Giurisprudenza, coltissima, lettrice instancabile, era una donna elegante, alta, con spalle strette, sguardo a volte severo a volte amabilmente ironico, fumatrice indefessa (aspirava le Benson). Come ricorda lo scrittore Santo Piazzese, Elvira Sellerio ricorreva a uno stratagemma: apriva un pacchetto di sigarette e le infilava tutte in un vecchio pacchetto Benson che non portasse l’avvertimento sui pericoli alla salute. A Piazzese raccontò un giorno di un tizio che rifiutò dal tabaccaio un pacchetto recante la scritta «Il fumo provoca impotenza». E ne chiese uno diverso: «Mi rassi chiddri ca fanno veniri ‘u cancru». Durante quel lungo colloquio, la Sellerio versava in acque difficili. «Di lì a poco – racconta Piazzese – sarebbe esploso il caso Camilleri: in un paio d’anni i problemi si sarebbero risolti». Elvira ebbe anche guai giudiziari, ma alla fine si concluse, grottescamente, con gli accusatori che divennero suoi elogiatori. Un vaudeville tipicamente italico.

La memoria di ElviraLa signora dei libri piccoli e di colore blu (brillante invenzione di Enzo) riceveva di continuo manoscritti. Non ne ignorava nessuno e informava gli aspiranti scrittori: garbata abitudine, per dirla tutta, non perseguita dal suo erede, il figlio Antonio, laureato alla Bocconi di Milano. Una volta, in un ristorante romano (Elvira Sellerio fu nel consiglio d’amministrazione della Rai dal ’93 al ’94) si vide assediata da alcuni camerieri ciascuno dei quali con in mano un dattiloscritto. Che farebbe un editore oggi? O non darebbe loro ascolto o reagirebbe con stizza. Lo dico per esperienza, non per pessimismo. Lei invece li afferrò tutti e con i camerieri intesse brevi conversazioni. Ecco il suo “antico” garbo, ecco la sua convinzione che ci potesse essere in qualche pagina lo stimolo alla pubblicazione.

I suoi autori preferiti: Proust e Stendhal. I suoi consigli li ha trascritti Alessandra Lavagnino: «A volte bastano poche, pochissime parole… Un a capo dove non te l’aspetti… Bada che non è proibito dire la verità: non sempre. Questo nessuno lo capisce. Prendono la verità per menzogne e viceversa: dipende dal narratore. Vedi Dante… ma tu non devi pensare a queste cose. Tu scrivi!». Maria Attanasio parla della sua «polimorfica passione di lettrice». Alla domanda su che cosa nella letteratura le piacesse rispose che per lei era «inscindibilmente connessa al divenire delle infinite trame della vita. E lo scrittore è un couturier, che – allungando o accorciando, velando o mostrando – liberamente ricuce vita e parola: l’abito, plurale e necessario delle forme, che l’immaginario deve cucirle addosso, per rappresentarla – la vita – aggiungendo uno sguardo inedito sul mondo. Abiti e sguardi di scrittura, che affascinavano tutti, senza pregiudizi espressivi o limitazioni tematiche». Elvira Sellerio, la coltissima che però non faceva mai citazioni testuali, «mi congedò con una frase di Anatole France sui libri storici: che senza un po’ di menzogna sono assolutamente illeggibili, mortalmente noiosi».

L’editrice nata a Palermo e morta a Palermo, teneva molto a che, in prima pagina comparisse il nome della sua città. Negli ultimi anni aveva ristrutturato un casale a Marina di Ragusa. E diceva: «Questo è il mio paradiso». Curava piante e fiori, ne era orgogliosa. E la sera aspettava il buio in terrazza, fumando e riflettendo. Tutti i suoi autori, senza alcuna eccezione, la descrivono cortese, disponibilissima. Una volta suggerì a uno scrittore di cambiare il finale: «Ma deve proprio morire quel bambino?». L’autore, all’inizio refrattario a cambiare, ci ripensò e ritoccò alcuni passaggi, mutuando la visuale della narrazione. Tornò da Elvira Sellerio al colmo della gioia. Ricorda Sergio Valzania: «Elvira era generosa nel chiedere. Traeva con naturalezza quello che ognuno di noi poteva avere da esprimere; molti avevano l’impressione di essere presagiti». Investiva in due modi: affettivo e culturale.  Quando morì Sciascia, nel 1989, provò dolore intenso. Ed ebbe un sussulto quando, entrata nel salotto degli incontri, ebbe l’impressione di vederlo in carne e ossa, seduto nella “sua” poltrona. Sulla quale, in realtà, qualcuno aveva dispiegato la prima pagina del quotidiano L’Ora, che mostrava in grande la foto dello scrittore-consigliere (fu lui a farle amare i gialli, almeno quelli che contenevano storie di vita, di politica, di sguaiato o subdolo malaffare, emblemi di un’Italia dai risvolti miserabili e criminali).

andrea camilleriAndrea Camilleri, 90 anni (gli auguriamo buona salute e di non smettere il passo veloce della sua creazione letteraria), ricorda quanto attenta fosse Elvira. Camilleri le aveva mandato una delle vicende del commissario Montalbano, Il sorriso di Angelica. Lo scrittore agrigentino ha l’abitudine di far leggere i suoi dattiloscritti a sua moglie e alla sua ottima collaboratrice tuttofare, Valentina. Le quali però, in quell’occasione, non si accorsero di una incongruenza. Fu Elvira ad additarla. Scrive Camilleri: «Elvira è stata una donna di rara generosità. Si è offerta, prima del successo, di prestarmi una grossa somma, che tra l’altro credo avrebbe dovuto racimolare, per farmi restare nella casa da dove ero stato sfrattato. Rifiutai, ma gliene sono rimasto sempre grato». Con Camilleri si instaurò quella che lui definì una profonda «amicizia siciliana, fatta anche di silenzi, di occhiate, del piacere di sentirsi l’uno accanto all’altra». Quando entrava nella sede editoriale, in via Siracusa, Camilleri, così come moltissimi altri, avvertiva la sensazione di essere a casa propria. Elvira si alzava: «Mio amico del cuore!». Parlavano spesso in dialetto. Lui la chiamava affettuosamente «Elvirù».

Camilleri andò dalla Sellerio grazie alla mediazione di Sciascia (una fortuna per entrambi) con uno scritto per dieci anni rifiutati da alcune case editrici, a causa di quello strano impasto linguistico. Che Elvira apprezzò molto. Libro dopo libro le vendite s’impennarono in modo vertiginoso. Un giorno Elvirù gli disse: «È inevitabile, un giorno o l’altro finirai col mettermi le corna. Ma attento: posso perdonarti sono lo mi tradisci con Marilyn Monroe e non con una donna qualsiasi. Ci siamo capiti?».

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