Vincenzo Nuzzo
Cartolina dal Portogallo

La città sotto la città

Lisbona (come anche Napoli o Roma) è una città da leggere. Alexandre Herculano, con i suoi romanzi gotici, ne rivela un volto nascosto: quello celtico

Oltre la Lisbona che si può vedere con i propri occhi, vi è una Lisbona che si ritrova solo nei libri. In questo caso, nei libri di Alexandre Herculano (nella foto). Per me personalmente bellissimi. Esempio pieno del romanzo storico tipicamente romantico. Rispetto al quale i Promessi sposi del nostro Manzoni (peraltro la loro traduzione in portoghese è stata presentata proprio nei giorni scorsi al locale l’Istituto Italiano di Cultura) spiccano per una posizione comunque ancora abbastanza classicista. Il romanzo storico di Herculano è invece sombriamente (bellissimo termine portoghese per l’avverbio di “fosco”) ”gotico” nel vero senso della parola. Cioè nel senso dei quel gusto che al tempo fece amare tutto ciò che era austeramente e quasi funereamente fantastico. Si vedano, per fare solo qualche esempio, opere come il Castello di Otranto di Walpole  o I demoni della notte di Charles Nodier. Insomma vero e proprio ossianesimo. Ma “gotico” anche in un altro senso, e cioè nel senso dell’indagine scrupolosa (documentale) dell’autore sul passato “goto” (qui “godo”) delle nazioni iberiche. L’altro grande romanzo di Alexandre Herculano (Eurico, o presbitero) descrive infatti proprio la Spagna ed il Portogallo occupati dai visigoti sul punto di essere sopraffatti dall’onda di conquista arabo-berbera da parte degli Omayyadi.

E questo ci suggerisce di nuovo un rilancio di viaggio verso quella Berlino che già abbiamo accostato a Lisbona. Una sostanziosa sezione del Pergamon Museum è infatti dedicata proprio a quella così  stupefacente e magnifica arte islamica che raccoglie tante testimonianze proprio di questa epoca ispanica.

E tuttavia il rilancio che qui ci sta più a cuore è sempre quello alla nostra Napoli. Quale città (oltre Roma), infatti, si presenta a noi di più come esplorabile nelle memorie scritte, parallelamente all’attuale luce del giorno turistica? Per di più a Napoli si aggiunge anche la dimensione occulta non dello scritto  sotterraneo. Ogni millimetro quadrato della nostra terra, infatti, nasconde miriadi di memorie fisiche sepolte. E quelle portate alla luce (del giorno, turistica) non ne sono quindi che una minima parte.

Altro elemento dunque sostanziosissimo, questo, del multiforme accostamento tra Lisbona e Napoli. Ed a ciò bisogna aggiungere il fatto che da un po’ di tempo a questa parte sono stati aperti al pubblico anche dei mirabili percorsi (solo relativamente antichi) che illustrano le straordinarie tecniche ingegneristiche usate al tempo del Marques de Pombal per rimettere in piedi la città dopo il terremoto del 1755. Del resto la retorica propria della più magnificente fioritura della cultura lusa, quella che vide Camões come suo bardo, vuole che il nome originario stesso della città, Olisipon, derivi dal mitico viaggio di Ulisse oltre le Colonne d’Ercole. La verità storica fa di questo accostamento solo un mito, eppure Plutarco alludeva nel suo Antro delle Ninfe ad un misterioso, ulteriore ed estremo, viaggio dell’inquieto eroe dopo il suo approdo all’amata Itaca. E cosa è più prossimo a questo delle peregrinazioni di Ulisse intorno alle nostre coste? E come evitare che il pensiero corra, pur senza alcuna giustificazione etimologica, da Olisipon a Pausilipon?

Sebbene, come ho già chiarito più volte, Lisbona ed il Portogallo non hanno nulla né di greco né di veramente latino. Questa è infatti terra perdutamente celtica, e per questo il suo carattere è infinitamente diverso da nostro grecismo antico e levantinismo moderno. Chiaramente sapido di azzurra aridità salina mediterranea e di relativi sagaci imbrogli. In ogni caso, secondo Graves (La dea bianca), l’intera penisola iberica sarebbe stata stazione di perenni migrazioni e strettissimi contatti, dal II millennio a.C. in poi, tra mondo egeo-mediorientale e mondo celtico nord-orientale (Britannia ed Irlanda).

E comunque l’identità celta mi sembra si sposi molto bene con quella gotica. Ed eccoci allora alla Lisbona gotica di Herculano. Egli la racconta in Arras por foro de Espanha, ambientato tra il 1371 ed il 1372. Il racconto narra di uno dei due storici drammoni politico-sentimentali tipicamente lusi, e cioè la vicenda del (sembra) sciagurato amore tra Dom Fernando I (detto “o formoso”) e Leonor Teles. L’adultera, che molti (incluso Alexandre Herculano) hanno voluto vedere come una perfida e demoniaca Lucrezia Borgia locale. L’altro drammone, antecedente di una sola generazione, era stato quello della morte violenta di Ines de Castro (altra amante del re e regina non voluta) per mano dei congiurati contro re Dom Pedro I, padre di Fernando (il quale, pazzo d’amore e di furia, per la morte della sua amata, scatenò una guerra civile contro il padre Alfonso IV). Sembra infatti che per divenire a tutti i costi regina di Portogallo, Leonor non abbia esitato a sedurre e subornare il bello ma debole Fernando, inducendolo per di più a consumare una sanguinosa vendetta contro quella Lisbona che aveva offeso Leonor, volendo a tutti i costi vederla morta. Ma non vi riuscì, ed anzi, sotto lo sguardo imbelle di Fernando, rifugiatosi intanto con lei a Santarem per sfuggire alla rivolta popolare, la città venne devastata dalle selvagge truppe castelhanas di  Henrique II.

Il racconto si sofferma sulla Lisbona del tempo proprio descrivendo la sedizione che preparò questa rivolta. E che assomiglia straordinariamente alla lunga ed avvincente descrizione della sedizione che preparò la Rivoluzione francese, fatta da Charles Dickens in A Tale of two cities ed ambientata in un quartiere anch’esso ancora medievale della Parigi del tempo, Sant’Antoine (ora sparito) ed il Marais (ora completamente diverso).

Siamo dunque nella Lisbona medievale, descritta come una città dalle tortuose e confuse viuzze, immonde e gremite di prostitute (oggi corrispondente grosso modo a quelle Alfama e Mouraria, anch’esse così simili alla Napoli più profonda). Prossima è la Sé (la Cattedrale) e tutt’intorno vi è l’angusta cinta di muraglioni del tempo. Ma chi c’è al centro di questa sedizione? La sordida ma ottimamente fornita in vino taverna di Micer Folco Taca, un genovese con il talento tutto nostrano di tacitare le autorità (“o corregedor da corte”) circa le sue prospere illegalità; mediante una “cegueira” da corruzione pecuniaria sulla quale Alexandre Herculano si sofferma con gustosa ironia. Presenza non casuale, dato che Lisbona fu al tempo una stazione proprio delle Repubbliche marinare italiane nei loro viaggi verso le Fiandre. E comunque, poco fuori delle  mura fernandine di allora ancora oggi sorge (a pochi passi dall’oltraggiosa statua seduta a Pessoa davanti al caffè “A Brasileira”) la chiesa di Nossa Senhora de Loreto, ieri ed occhi chiesa degli Italiani. Prossima alla taverna se ne stava poi nella muraglia una mitica Porta do Ferro, così chiamata a causa di misteriosi rumori di ferraglia di probabile origine sovrannaturale.  Infine nelle vicinanze poi passava l’opulenta e bella Rua Nova, l’attuale Rua Aurea (o Rua do Ouro) nel quartiere Baixa.

Ebbene, appena organizzata dal suo capitano (l’alfaiate, sarto, Fernão Vasques ‒ al quale poi Leonor avrebbe riservato una pessima fine), la folla, autentico e collerico “gigante popular” (così simile all’insidiosa marea rivoluzionaria descritta da Dickens ed anche da Hannah Arendt), si mosse al minaccioso grido «Alcácer, alcácer!». Il grido di guerra, al quale si mossero tremila uomini armati di alabarde ed i besteiros (balestrieri) di Dom João Lourenço Boubal, indicava come suo obiettivo bellico il castello recante ancora l’antico nome arabo di Alcaçova. Oggi esso porta il nome di Castelo de São Jorge e domina la città dalla collina in un modo molto simile al nostro Castel Sant’Elmo. Ma colpisce il nome con il quale ancora oggi la plebe rivoluzionaria viene chiamata, e cioè “arraia-miúda” ‒ termine oggi usato in modo non poco ingiurioso (come “povinho”, plebe scalza, ignorante e spregevole), ma allora impiegato dallo stesso Fernão Vasques nell’arringare la folla riottosa. Era l’anima stessa, rude e semplice, di Lisbona. Quella che dopo non molto tempo si sarebbe imbarcata sui vascelli dei “Descobrimentos” affrontando sacrifici immensi e guerre sanguinosissime. Per soddisfare la fame di spezie dell’intera Europa alla quale il Portogallo avrebbe aperto per sempre le vie dell’acqua.

In questo, bisogna dire, veramente nuovi greci odisseici e «popolo del mare» (Graves) mercante e guerriero. Greci però degli infiniti orizzonti di un Oceano non più blu come il Mediterraneo, ma giallastro, nebbioso e minacciosamente immenso sotto un sinistro cielo plumbeo. Quel mare ai cui limiti attendeva insidioso e feroce quel “mostrengo” che, nella retorica neo-camoesca di Pessoa (“Mensagem”), si sarebbe infine inchinato al coraggio ed alla “ousadia” dei lusi. Celti e visigoti. Né greci né romani.

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