Pier Mario Fasanotti 
Dieci racconti di Mario Massimo

Viaggi nel tempo

Ha lo spessore di un classico la prosa dell'autore pugliese, ex docente e critico letterario. Che ci trasporta tra storia e immaginazione all'epoca del Cristo risorto, di Dante, del Grande Inquisitore. Scavando con minuzia nel sentire umano...

Un azzardo metaforico: immaginiamo che i libri siano degli esseri viventi a più voci, racchiusi in pagine cartacee. Ognuno di essi ha molto da raccontare perché contiene vicende ed emozioni. Vale la pena scegliere i classici, quelli che non tramontano, quelli che non assumono opacità o banalità d’accatto dopo qualche stagione di fulgore commerciale. Ecco, dopo aver letto i racconti di Mario Massimo, ex docente, critico letterario e scrittore, non esito a riporre il libro in uno degli scaffali affollati da carte rilegate e destinate a lunga vita. Da circa una settimana la casa editrice romana Empiria ha stampato la raccolta di dieci brani di Massimo col titolo Scavi dentro il tempo (100 pagine, 14 euro). L’autore viaggia nel tempo, plana su alcuni precisi giorni o anni e, appunto, scava. Scava con la sonda quasi chirurgica di chi esplora un sorriso ambiguo, una piega nel volto, una pulsione d’odio o di amore, una malinconia che si dilata nelle menti e nelle viscere. Un’attività, questa, che consente spesso di accostare l’immaginazione a precisi accadimenti storici. In fondo ad alcuni racconti ci sono le “note”: non un appesantimento, semmai un faro a illuminare ciò che si è appena letto sopra. Sorge, a mio avviso, una sorta di gara, incruenta, tra le note e il racconto. E un quesito: dove è più forte la luce? Senza dubbio nel racconto, che potrebbe anche fare a meno delle ben levigate stampelle fornite dal rugoso legno della Storia.

Uno stile sempre alto, senza contorsioni barocche, preciso senza autocompiacimenti e pedanterie lessicali. Nel racconto Nessun osso, il primo della serie, Massimo ci fa incontrare un oste dell’antica Roma, Laevio Clunio. Questi intuisce che chi gli sta di fronte non è un cliente come tutti gli altri, bensì proveniente dalla “Judaea Provincia”, già terra di Erode. Un posto strambo. Scrive l’autore: «Perché lì la gente ha un’idea, del potere, che non c’è in altre parti del mondo – Clunio, e così tutti gli altri romani, ci aveva messo un bel po’, non ad accettarlo, a prenderne atto – l’idea che chi sta al potere è anche capo per moralità del suo popolo: il potere è una cosa che Dio non ti lascia tenere, se non sei il più fedele esecutore dei comandamenti che ha dato». Ovvio che si venga a parlare, in quell’osteria, del Cristo, «un rivoluzionario. Un illuso…». Il cliente sbatte in faccia la verità all’oste: eri di sentinella al Calvario, hai verificato il decesso umiliante del Nazzareno condannato, eppure sappi che è risorto. E poi il rimprovero come un boato, in quella taverna: «Ma come! Non lo capisci? La tua maledetta pigrizia, il solito modo di voi italiani, qua a Roma, di sottrarvi alla serietà della vita…».

cop massimoMonna Bianca Latini spunta nel racconto Il miglior retaggio, ove s’allude al «figlio di quel Messer Alighiero di cui bene o male tutti, a Firenze, sapevano che prestava, o aveva prestato a suo tempo, a usura. Un ragazzo – così lo ricordava – di colorito ulivigno, non alto, e di complession sfinata, ma solida, con penetrantissimi occhi color pece nel viso scarno, a cui s’imponeva l’incisività perentoria, benché ancor fresca d’adolescenza, del profilo. Sì, Dante o Durante che fosse, da ser Brunetto ascoltò il contenuto di un libro venuto da lontano, scritto con segni diversi dai nostri». Storia di un viaggio, e «il viaggio era quello del Profeta fino al seno di Abramo». Nella nota l’autore accenna a un saggio di Miguel Asìn Palacios intitolato La escatologìa musulmana de la Divina Comedìa. Ipotesi da non scartare affatto. Nello stesso tempo Mario Massimo, richiama alcune righe del racconto a proposito della «curiosità di cui peccano le donne» aggiungendo: «Come neanche coi nostri corpetti scollati… come neanche, così dicono, quelle di Barbagia, quando un uomo sta per morire, che se lo riaccostano al seno, no?». L’autore cerca il placet dantesco e lo trova nel Purgatorio dell’Alighieri: «che la Barbagia di Sardinia assai/nelle femmine sue più è pudica». E scansa l’idea di «una generica selvatichezza di quelle donne», ammettendo di non avere pezze d’appoggio di letteratura scientifica sull’usanza di «andar mostrando co le poppe il petto», un’usanza popolare, è ovvio. Sta però storicamente in piedi la tradizione sarda della “attittadora”, la donna che, con trasparente intento magico-simpatico di “rigenerazione”, porgeva a un morente il suo seno.

Aurea lugubre avvolge, nel racconto A immagine di Caino, l’Inquisitore Guevara «grifagno dell’occhiale nero e, a contrasto con la destra signorile e molle, l’artiglio con cui sta aggrappato al bracciolo della poltrona, e al potere sopra gli altri uomini, al gesto che ne decide la morte e la prigionia e la tortura perché non hanno di Dio l’opinione imposta universalmente». Tenebrosi tutti i Guevara. La testa di Antonio che cozza contro le pietre del selciato «e la mano sinistra graffiò l’aria, cadendo a spaccarsi per terra: di sotto la manica, e il fragile svolazzo del polso della camicia, il sangue scivolò grumoso, stagnando nel palmo un istante, prima di traboccare al di là delle dita». Il contorno non è meno nero: la pestilenza. Nella nota, l’autore spiega: «L’arbitrio, che qui confesso, di aver collegato le fattezze dei Velez de Guevara di Napoli a quelle del Grande Inquisitore dello stesso nome ritratto da El Greco, potrebbe forse essere temperato da una certa affinità fisiognomica leggibile fra quei tratti e la faccia del Guevara che fu viceré».

Tenerezza e forte sensualità troviamo nel racconto La fiamma impari, ove Dorothea von Sedlacek osserva il marito dormiente, Augustin, sul far dell’alba. «Carne d’uomo di così attraente giustezza». Procede la narrazione, sempre che il lettore voglia abbandonarsi all’intrico di nomi e situazioni, all’indicazioni che il lessico lussuoso dell’autore scopre e ricopre, rischiando di farci smarrire. Sia pur con esacerbata dolcezza.

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