Mario Massimo
A proposito di “Perché non sono ancora”

La scrittura ombra

Ancora un libro intorno al Vangelo (dopo Citati e Carrère): Paolo Di Paolo lavora sul testo di Giovanni, e lo analizza proprio come una grande avventura della creatività

Se, come lo chiamavano i ben costumati narratori onniscienti del passato, il “benigno lettore” ci consente la (veniale, forse) immodestia di richiamarci ad un nostro discorso da poco fatto su queste pagine in merito ai Vangeli, e al loro comporsi, insieme travaglioso e adorante, intorno al nucleo delle parole di Gesù (clicca qui per leggere la recensione al libro di Pietro Citati, ndr), diventa più facile comunicargli la gioia della scoperta che trema nel cuore di un conciso, coinvolgente testo di recente apparso presso le edizioni Effatà, all’interno del progetto “Scrittori di Scrittura” che (testualmente, dalla quarta di copertina) «presenta al pubblico le opere di alcuni autori che si sono cimentati nella riscrittura di un brano biblico secondo la propria sensibilità». Riscrittura dichiarata, dunque: un gioco a carte scoperte, non celato dietro un anonimato di volenteroso amanuense, ma lucido dell’azzardo da cui nasce, in sostanza, qualsiasi gesto letterario.

Né del resto è stato un “riscrivere”, quello che Paolo Di Paolo (Perché non sono ancora. La resurrezione, Effatà, 64 pagine, 6 euro) ha fatto del brano del Vangelo di Giovanni (19,41-20,18) sulla Resurrezione, ma piuttosto un muovervisi intorno, con passo lieve ma con limpida acutezza di sguardo, e poi dentro, in profondità.

Paolo Di Paolo Perché non sono ancoraE ciò tuttavia non ha comportato cedimenti nel livello letterario; ché anzi, rivivendo la scena nelle versioni, leggermente ma irreconciliabilmente discordanti, dei quattro evangelisti, come in quella prescelta, di Giovanni, Di Paolo la inquadra in una trama sobria quanto sapiente di riferimenti ad altri scrittori: Péguy e Saramago, Amos Oz, Christian Bobin, Derrida, Calvino, Tabucchi; e perfino – secondo una modalità compositiva cara all’autore, che vi si è attenuto in più di un suo libro – alternando al testo immagini pittoriche (Matthias Grünewald, Gerrit van Honthorst, Alonso Cano, il drammatico, altissimo realismo poetico del Tradimento di Giuda del Caravaggio), commentate con vigile partecipazione.

Avventura della creatività, dunque, e non solo nel commosso brano finale, in cui Di Paolo, con cadenza quasi religiosamente anaforica – ma di laica, umanissima religiosità –, riafferma la sua fedeltà alle ragioni dello scrivere («Ho scritto per fare delle domande senza avere neanche l’inizio di una risposta. Ho scritto per lasciare le domande aperte come porte spalancate. Soprattutto ho scritto – come dice Georges Perec – per “strappare qualche briciola precisa al vuoto che si scava, lasciare, da qualche parte, un solco, una traccia, un marchio o qualche segno”»).

paolo di paoloMeglio ancora, perché è finissima sensibilità letteraria, quella con cui viene fatto inverare l’impensabile, come Di Paolo lo chiama, «in una prospettiva anche solo terrena, del ricordo, di ogni ricordo come di una resurrezione: l’esistente scomparso risorge in noi». Sicché proprio come può «vibrare nell’aria» ancora «il modo di chiamarmi di mia nonna», può risorgere, l’uomo di Nazareth, «ininterrottamente, nelle preghiere di chi crede, nelle parole di chi lo nega, lo studia, lo sfida […]. Risorge, è risorto anche nel male compiuto in segno suo. Risorge, è risorto soprattutto nel bene compiuto in nome suo, dalle collettività e dai singoli».

Ma forse il punto in cui questo libro di poche agilissime pagine culmina con più poetica persuasività può essere individuato là dove, rileggendo il personale taglio che Giovanni ha dato alla scena, col focalizzarla – unico fra gli evangelisti – negli occhi e nel desolato domandare di Maria Maddalena, Di Paolo concentra la sua attenzione su «un dettaglio di straordinaria intensità e bellezza»: l’attimo in cui è la voce dell’uomo che le è venuto incontro fra le piante e la nebbia dell’alba, a far riconoscere Gesù alla Maddalena (come ancora, in Luca, nota Di Paolo, ricorderanno i distratti viandanti alla volta di Emmaus): «Sente pronunciare il suo nome, è toccata da quella voce. È per lei il più grande indizio di vita»; lo stesso che nelle parole nitide e brucianti di Antonio Tabucchi torna qui a evocare il rapporto con il padre morto.

Il che, in definitiva, ci lascia apprezzare ancor più come Paolo Di Paolo sia riuscito a porsi, di fronte a quel momento così essenziale, nel centro di una plurisecolare vicenda religiosa, con una specie di pudore verso il “sacro”, di rispetto al di qua del credere o non credere, cogliendone il dato squisitamente umano – la voce, il toccare… –, ma senza negarne la parte di mistero, di “ombra”, cui a ognuno di noi spetta, se vuole, di trovare in sé una risposta.

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