Odetta Melazzini
Radiografia del terrorismo/10

Il petrolio islamico

Per capire quel che succede ora, bisogna riandare alla "guerra fredda araba" di 40 anni fa quando al nazionalismo di sinistra si contrappose un ritorno alla purezza islamica, da Khomeini all'Arabia Saudita

Gli anni ’70 furono segnati dall’irruzione dei movimenti fondamentalisti militanti in quasi tutti i paesi del mondo musulmano. Essi diventarono in quegli anni la principale forza di contestazione nel Medio oriente, approfittando dell’usura delle ideologie nazionali e socialiste dei vari regimi: il nasserismo in Egitto, il Fronte di liberazione nazionale (FLN) in Algeria, il kemalismo in Turchia. Nel febbraio 1979, con il trionfo della rivoluzione iraniana che distrusse il governo dello shah, i fondamentalisti videro la costruzione di una repubblica islamica, che applicò i precetti dell’ayatollah Khomeini all’inizio del decennio. Questo ritorno all’Islam radicale sconvolse tutto il mondo occidentale poiché esso riteneva che, con l’avanzare della modernizzazione, la religione islamica avesse, nei fatti, perso la sua attualità politica. In questo decennio, del resto, la politicizzazione dell’Islam non si esaurì nella rivoluzione iraniana.

Nel 1973, dopo la guerra arabo- israeliana dello Yom Kippur, i postumi del conflitto permisero alla corrente wahhabita-islamista, integralista e conservatrice, di estendere la sua influenza e di conquistare una posizione di forza nel panorama internazionale dell’Islam. Benché la corrente wahhabita abbia avuto un impatto meno visibile rispetto alla rivoluzione di Khomeini, ebbe un’influenza più profonda e duratura nel tempo. Il wahabismo riorganizzò le schiere religiose, favorì le associazioni e irrorò di denaro il mondo islamico. Del resto, pur opponendo le virtù della cultura islamica alla corruzione del mondo occidentale, l’Arabia Saudita, da cui provenivano i fondi dell’organizzazione wahhabita, rimase un alleato importante per gli USA e l’Occidente contro il blocco sovietico.

petrolio arabia saudita1Sebbene il 1979 iniziò a Teheran con la vittoria della rivoluzione islamica al grido di «Abbasso l’America», sarebbe sbagliato ridurre l’islamismo apparso negli anni ’70 ad un movimento anti-imperialista. Per misurare il fenomeno è necessario analizzare le sue molteplici dimensioni, le tendenze, le idee, gli sconvolgimenti demografici, culturali, economici e sociali tipici di quel decennio.

Fino all’inizio degli anni ’70 nella maggior parte dei paesi musulmani predominò la cultura del nazionalismo. Essa fu elaborata dalle élites locali, che seppero contrastare con successo la colonizzazione europea, impedendone il dominio o conducendo il paese all’indipendenza (come ha fatto la maggior parte degli altri paesi dopo la Seconda Guerra Mondiale).

Negli anni ’70 i giovani nati con l’indipendenza dal colonialismo arrivarono all’età adulta in quasi tutti i paesi musulmani. Questa nuova generazione, a causa dell’esplosione demografica, divenne particolarmente numerosa e, a differenza dei genitori, non poté godere dell’eccezionale processo di inserimento e di ascensione sociale, che furono resi possibili dalla partenza dei coloni e dalla spartizione dei loro beni. Tra il 1955 e il 1970, inoltre, la crescita della popolazione nel mondo islamico fu notevole (40-50% a seconda del paese). Nel 1975 chi aveva meno di 24 anni rappresentava dappertutto più del 60% della popolazione e l’urbanizzazione, come l’alfabetizzazione, avanzavano a passi da gigante. Il mondo musulmano conobbe un radicale cambiamento grazie a questa massa di giovani rappresentanti la prima generazione padrona della scrittura. I giovani degli anni ’70 non si inserirono bene nel loro ambiente poiché, grazie al sapere acquisito nella scuola pubblica di massa, aspiravano a cambiare lo status, a salire i gradini della società, mentre i loro genitori e antenati si accontentarono di ruoli sociali immutabili. Il diffondersi della scuola media e, in misura minore, di quella superiore, provocò un cambiamento  di grandi proporzioni; le istituzioni scolastiche permisero non solo l’accesso alla cultura scritta (lettura del giornale), ma anche consentirono ai giovani di scegliere le fonti di informazione e di confrontarle, di esprimersi in forma corretta in pubblico, di dibattere e di sentirsi allo stesso livello intellettuale delle élites del potere. Eppure, nonostante il miglioramento culturale, non vi fu nessun progresso a livello sociale. Questo provocò un forte risentimento verso la classe dirigente, giudicata colpevole di essersi impossessata dello Stato e di aver escluso dal potere e dalla ricchezza i giovani.

petrolio arabia saudita3Fu proprio sul terreno culturale che si espresse il malcontento sociale e politico, attraverso il rigetto dell’ideologia nazionalista dei regimi al potere e l’avvicinamento all’ideologia islamista fondamentalista. I campus, dominati all’inizio degli anni ’70 dai gruppi di sinistra, passarono sotto il controllo dei movimenti islamisti. Tra questi studenti si formò l’intellighenzia islamista che, partendo dalla frattura col nazionalismo, fece dell’Islam una lotta per l’egemonia politica. Gli adepti del movimento vennero reclutati in ambienti differenti. In particolare, oltre agli ideologi studenteschi, due gruppi sociali furono particolarmente permeabili alla penetrazione islamista: la gioventù urbana e la borghesia religiosa. Mentre, però, il primo gruppo dava all’instaurazione di uno stato islamico un contenuto socialmente rivoluzionario, il secondo vedeva in esso l’occasione di prendere il posto delle élites al potere, senza scardinare le gerarchie sociali.

La caratteristica dell’ideologia dell’intellighenzia consisteva nel nascondere questo antagonismo di interessi e nel cercare di indirizzarlo verso un obiettivo comune, quello della conquista del potere. Del resto, le contraddizioni tra gli obiettivi della gioventù urbana povera e quelli della borghesia erano esplicative del perché il movimento potesse essere egemonizzato da forze o gruppi di destra come di sinistra. Questo dualismo sociale è connaturato nei movimenti islamisti, ne costituisce l’essenza; quando si riescono a mobilitare insieme la gioventù povera urbana e la borghesia religiosa grazie ad un programma sociale vago, gli islamisti riescono a conquistare molte più persone. Al contrario quando questi due gruppi si separano, l’ideologia non funziona più da collante ed emergono pensieri islamisti diversi. Dunque, per riassumere, la comparsa dell’intellighenzia islamista fu la prima condizione per l’esistenza del movimento e si manifestò sin dall’inizio degli anni ’70 nei campus universitari di Egitto, Malaysia e Pakistan fino a diffondersi in tutto il mondo musulmano, beneficiando dei canali e del denaro della corrente wahhabita dopo la guerra del 1973. In tutti questi casi il movimento islamista si impose prendendo il posto del nazionalismo.

È sbagliato, però, pensare che il nazionalismo arabo fosse un’unica realtà inscindibile. Esso si divise in due schieramenti antagonisti: uno progressista, dietro l’Egitto di Nasser, la Siria, l’Iraq baathista, e l’altro conservatore, al seguito delle monarchie della penisola e della Giordania. Questa “guerra fredda araba” fece dello scontro con Israele l’unico fattore di consenso, che, però, venne pressoché azzerato dalla sconfitta nella Guerra dei sei giorni nel giugno 1967. La disfatta della guerra arabo-israeliana del 1967 minò l’edificio ideologico del nazionalismo e creò un vuoto che facilitò, alcuni anni dopo, la penetrazione nella società delle nuove idee del fondamentalismo. Fu proprio dopo la guerra dei sei giorni che i militanti islamici cominciarono a rendersi conto che la guerra regolare era fallita e che bisognava provare altri metodi. I nuovi obiettivi della lotta dovevano essere i luoghi pubblici e i ritrovi di ogni genere, prevalentemente civili e nei quali le vittime non necessariamente avevano un legame col nemico dichiarato. Fra gli esempi di questa tattica ci fu, nel 1970, il dirottamento di tre aerei che furono tutti portati ad Amman e nel 1972 l’assassinio degli atleti israeliani alle Olimpiadi di Monaco.

petrolio arabia saudita5Vi è da aggiungere che dopo che le organizzazioni palestinesi conquistarono l’autonomia con l’avvento di Yasser Arafat alla testa dell’OLP nel 1969, crollò anche ciò che gli stati arabi avevano sempre utilizzato per dare sostanza al proprio nazionalismo.

Nel corso del 1970 la crisi del nazionalismo sembrò favorire i movimenti di sinistra, rappresentati dalla resistenza palestinese e dalla mobilitazione studentesca, a volte sostenuta dai movimenti operai. In ogni caso, la sinistra non riuscì a farsi spazio al di là del mondo studentesco, fra gli intellettuali delle città e la classe operaia. Il discorso radicale della sinistra spaventò le classi medie e rimase incomprensibile per la massa della popolazione. Il fondamentalismo riuscì meglio a rappresentare le istanze popolari e, allo stesso tempo, dell’intellighenzia.

Un forte aiuto all’espansione del fondamentalismo fu dato dalla corrente wahhabita. La guerra arabo-israeliana del 1973 si concluse con un armistizio firmato sulla strada Suez-Il Cairo, a 101 km dalla capitale egiziana. Gli stati arabi ottennero una vittoria simbolica sul campo di battaglia, ma i veri vincitori della guerra furono i paesi esportatori di petrolio, primo fra tutti l’Arabia Saudita. Sommersi dai petrodollari, gli Stati del Golfo acquistarono una posizione dominante nel mondo musulmano. L’Arabia Saudita possedendo risorse illimitate, poté realizzare la sua vecchia vocazione egemonica sul significato dell’Islam in tutta la ummah islamica. Prima del 1973, infatti, le tradizioni islamiche nazionali o locali radicate nella devozione popolare e le correnti sciite e sunnite conservarono una posizione dominante. Dopo il 1973, le istituzioni wahhabite crebbero di dimensione e si lanciarono sul proselitismo di larga scala in tutto il mondo sunnita poiché gli sciiti, ritenuti eretici, non vennero presi in considerazione. L’opera di proselitismo del wahabismo superò le frontiere dei paesi islamici e si estese fino all’Europa, ottenendo grande considerazione presso le popolazioni immigrate. La diffusione della fede non fu l’unico obiettivo dei wahhabiti; l’obbedienza religiosa divenne il fatto discriminante per ripartire aiuti economici ai musulmani di tutto il mondo. Poiché il potere saudita divenne l’unico amministratore di un immenso impero di beneficenza e carità, esso cercò di legittimare questa prosperità identificandola con la manna divina, in quanto scese sulla penisola dove il Profeta ricevette la Rivelazione. Questa dimensione caritatevole permise di difendere la monarchia saudita, ormai fragile, e contribuì a far dimenticare che la protezione dell’Arabia Saudita poggiava, in ultima istanza sulla potenza militare americana e che il regime era sotto la stretta dipendenza degli USA. Tale strategia fu in grado di proteggere la casa Saud negli anni delle ricchezze petrolifere, finché la guerra del Golfo del 1990-1991 non sconvolse gli equilibri.

petrolio arabia saudita2Il sistema saudita wahhabita si introdusse nei rapporti tra società e stato in quasi tutti i paesi musulmani, grazie alle sue reti di proselitismo e i suoi sussidi. Le élites nazionaliste, però, non videro i proventi da petrolio come minacce ai loro regimi poiché aiutarono ad affrontare meglio l’esplosione demografica in atto. Dalla seconda metà degli anni ’70, giovani diplomati, universitari, artigiani, e contadini sbarcarono nei paesi petroliferi del Sudan, l’Egitto, la Palestina, il Libano, la Siria, la Giordania, il Pakistan, l’India e il Sud-Est asiatico. Gli stati del Golfo passarono da 1,2 milioni di lavoratori immigrati nel 1975 a 5,15 milioni nel 1985. L’impatto sociale ed economico di queste migrazioni fu, come è facilmente intuibile, enorme. Innanzitutto, in un periodo cruciale in cui arrivò sul mercato del lavoro la prima generazione nata dopo l’indipendenza, particolarmente ricettiva al malcontento sociale, le schiere dei disoccupati si sfoltirono. Le migrazioni portarono denaro nelle economie nazionali, attraverso i sussidi inviati alle famiglie che rimasero in patria e crearono nuovi flussi di ricchezza al di fuori del controllo statale. Infine, le migrazioni garantirono una rapida ascesa sociale alla maggior parte degli emigrati, che ritornarono in patria con uno status differente. Questa scalata sociale si accompagnò ad un’intensificazione della pratica religiosa, poiché coloro che vivevano come emigranti nelle petromonarchie della penisola si arricchirono in un ambiente wahhabita e di conseguenza, attribuirono la loro prosperità materiale ad una causa spirituale.

10. continua

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