Danilo Maestosi
Una ricca mostra al Macro di Roma

I mille Toti Scialoja

Dalla poesia alle filastrocche per bambini, dall'infatuazione espressionista alla passione per l'insegnamento, dalla pittura a stampo all'action painting. Omaggio a un grandissimo: Toti Scialoja

«L’uccello nero/ salta leggiero/ si chiama merlo/ senza saperlo». «L’ippopota disse «Mo’/ nella mota ho il mio popò». «La zanzara per decenza/ ha una tunica d’organza/ quando è sbronza vola senza/ a zig zag per la Brianza». Sono un piccolo campione delle tante filastrocche che Toti Scialoja (1914-1998) ci ha regalato nella sua carriera di mattatore tutto fare, condendo ogni strofetta con il contrappunto di disegni parlanti, non solo alla fantasia dei bambini, cui pure erano rivolti. Come non innamorarsi di una persona così che scivola sulle parole come un surfista sull’onda, che ne distilla il non senso come un retrogusto che dà senso alla vita? Facile capire perché due scrittori di palato fino come Italo Calvino e Giorgio Manganelli lo abbiano adorato e frequentato, descrivendolo come un pioniere.

Come non innamorarsi – raccontano anche i suoi amici d’America, dove fu tra i pochi pittori italiani della sua generazione ad avventurarsi e a conquistare una caratura internazionale – di un pittore che non parlava una parola d’inglese ma intratteneva interminabili dibattiti d’estetica e stringeva solide amicizie con colleghi del rango di Pollock, Gorki, Rothko e riusciva, gesticolando come un mimo, a farsi capire?

Scialoja 5 Iside, 1990Chissà quanti sorrisi di divertimento e sorpresa devono essere aver increspato i volti degli spettatori di Gibellina, dove tenne laboratorio per molto tempo a cavallo tra gli anni Settanta ed Ottanta, quando videro spuntare sul palco del Ratto di Proserpina, quel mastodonte dentato di cartapesta realizzato da Scialoja a sbeffeggiare l’ottuso torpore delle macchine tecnologiche?

E quanti giovani aspiranti deve aver ammaliato negli anni in cui in due riprese indossò l’abito di insegnante di Accademia, uno come lui capace di svezzare, stimolare, spingere verso la propria strada caratteri e talenti così diversi tra loro, così diversi da lui: l’ombroso Mario Ceroli, il timido e coriaceo Jannis Kounellis, lo straripante Pino Pascali, quella farfallina tutto pepe e leggerezza di Giosetta Fioroni?

È l’inconfondibile ritratto di uno straordinario seduttore quello che la mostra, appena aperta al Macro, ricompone nel centenario della nascita di Toti Scialoja, con il contributo essenziale dell’Accademia di via Ripetta e della Fondazione che porta il suo nome. Ricostruendo in tanti efficaci siparietti il suo talento mercuriale: la poesia per grandi e piccoli, l’insegnamento, la scenografia ed i costumi per il teatro e per la tv, cui collaborò anche come autore di programmi che allora sembravano indimenticabili e invece sono stati travolti dall’oblio che oggi, in questi anni Duemila infastiditi dalla Storia, condanna chi non è più di moda e magari anche per questo non fa più mercato. E infine la pittura, che per facilità di rappresentazione risulta il capitolo più ricco, probabilmente però il più difficile da rimettere a fuoco. Forse perché da pittore rende più palese l’ambivalenza di ogni grande seduttore che rifiutando il cinismo autorefenziale di un Don Giovanni o di un Casanova non può fare a meno di lasciarsi a sua volta sedurre.

Scialoja 4 Marchè aux puces, 1950Già, quanti innamoramenti, quante metamorfosi da Zelig nei suoi primi anni d’avvio, quando nell’anteguerra entra nel giro buono della Galleria La Cometa della contessa Pecci Blunt e del critico poeta de Libero e facendo tesoro delle sue doti letterarie, della sua cultura e della sua straripante fantasia diventa amico e poi collega di tutti i grandi maestri incontrati in quel prestigioso crocicchio: Mafai, Cagli, Pirandello, Melli, Guttuso. «Una spugna, il giovane Toti Scialoja», ammette un critico che non si nasconde come Gabriele Simongini, uno dei promotori della mostra. Lo confermano i quadri anni Quaranta, scelti ed esposti qui per documentare questa prima fase che si muove nel solco dell’arte di figura. Paesaggi, nature morte, ritratti. Ad ognuno dei grandi personaggi che incrocia nella piccola Roma dell’arte di allora paga dazio. Nella scelta dei temi, nell’uso del colore. Contrae un debito evidente anche dal suo soggiorno a Parigi, da cui torna con una passione sviscerata per l’espressionismo vorace di Soutine, di cui riprende i vortici di pennellate in un paio di ritratti femminili che sembrano quasi copie.

Lui stesso deve essersi reso conto del rischio di diventare carta assorbente, se in un breve testo di quegli anni, appeso come didascalia del capitolo, confessa di aver preso la pittura come un gioco, un divertimento d’istinto e di essersi accorto che la pittura è invece un in sé di filosofia, di pensiero e di azione. Per questo – conclude – ha deciso di lasciarsi per sempre alle spalle la poesia e la scrittura. Mente senza saperlo, e sicuramente si sbaglia perché alla poesia tornerà con le filastrocche che comincia a comporre per i suoi nipotini e poi pubblicherà, corredate da splendidi disegni, in vari volumi. Con grande successo.

E alla poesia deve la sua decisiva svolta di pittore: «Il segreto dei miei versi – spiega lui stesso in una intervista – è muoversi in una linea di confine dove le parole perdendo senso perdono peso, ma acquistano nuove identità di ritmo e leggerezza». La stessa miscela di ingredienti che da allora dominerà la sua avventura artistica. Niente più pennello però, la stesura del colore e dei segni segue altre strade, prende forza dal collage, dagli innesti, dalla sperimentazione di altri materiali. È il suo periodo più fecondo, quello in cui, secondo Simongini, ha lasciato l’impronta più originale. La fase della pittura a stampo: il colore posato su strisce di carta lucida e poi stampato a colonne sulla tela, a volte affiancato da ritagli di bordure da tappezziere, altri intarsi da robivecchi.

Scialoja 2 Il Gabbiano, 1965E anche qui torna a fargli da bussola il suo fiuto di intellettuale che annusa subito l’aria che tira, assorbe quel che gli si muove attorno. Non solo in Italia, dove farà tesoro dell’amicizia e i consigli di un innovatore come Burri. Ma soprattutto in America, dove un altro amico come Cy Twombly lo convince ad esporre e soggiornare. È tra i primi a tentare un salto che darà risonanza e quotazioni internazionali alle sue opere. E lo mette in contatto con i grandi maestri d’Oltreoceano dell’espressionismo astratto. Pollock, Rothko, Gorki, De Kooning. Echi che tornano nella sua produzione. E soprattutto nei quadri degli ultimi anni, preceduti da un intervallo di sperimentazione di moduli geometrici, una partitura cromatica che punta soprattutto sul ritmo, un alternarsi di pause e movimento.

Dalla fine degli anni Ottanta le sue tele tornano all’action painting e si riempiono di colature, macchie, segni dettati dal gesto o confezionati dal caso. Ma le tonalità sono in genere più cupe. È un ultimo colpo d’ala della sua sensibilità di seduttore-sedotto: la riscoperta di Goya, il Goya dei Capricci. La pittura che mette in scena l’orrore, la paura, le tentazioni di un’umanità in bilico sul baratro della tragedia. Uno Scialoja più serio, che però conserva come sempre il piacere di non prendersi sul serio. «Un allegro fischiettare tra le tenebre», come titola l’illuminante saggio sulle sue poesie che Eloisa Morra gli ha di recente dedicato.

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