Simonetta Milazzo
Come si interviene per salvare le opere?

Un bisturi d’arte

Il restauro del Crocefisso ligneo policromo della Basilica di Santa Maria in Trastevere ci dà l'occasione per conoscere i segreti (e i rischi) di un lavoro molto delicato, quasi parallelo alla creazione artistica

Il capo era composto con numerosi tasselli, piccole porzioni di legno assemblate a formare la capigliatura, raccolta e distribuita in morbide lunghe ciocche; il volto era intagliato a parte, aggiunto quasi fosse una maschera, lo sguardo colto nell’attimo di un equilibrio sospeso tra sofferenza e salvazione. Il restauro del Crocefisso ligneo policromo della Basilica di Santa Maria in Trastevere è stato compiuto e l’imponente scultura lignea viene ora restituita alla visione nella terza cappella della navata laterale destra della Chiesa.

La croce misura 3 metri, il corpo poco meno, le braccia e le gambe, mediante cavicchi, furono assicurate al torace e al bacino; questi erano scolpiti su un unico tronco di pioppo, opportunamente scavato  per alleggerirlo del peso e permetterne le lavorazioni dall’interno.

Sembra quasi di cogliere un ultimo respiro nel torace ancora gonfio, le costole molto evidenti, i fianchi avvolti in un fluente panno annodato, che l’autore impreziosì con l’innesto di striscioline di stagno, su cui effettuò la doratura, piccole “lamelle” verticali eseguite secondo una tecnica così definita “dell’oro doppio”, il cui ricorso ha rappresentato un indizio determinante per stabilirne la datazione – alla fine del secolo XIV – di almeno una parte della statua. Dalla seconda metà dell’800 una vernice molto scura era stata stesa uniformemente sulla scultura, forse per una scelta stilistica debitrice dell’idea che alle opere in “simil bronzo” si attribuisse più valore.

Con ammirazione e devozione si guarda ora a quella testa quasi china, ancora sostenuta da un collo che non cede del tutto, ancora non vinta; una corda vera è poggiata sulle chiome a mo’ di corona, dalle palpebre socchiuse si coglie, al di sotto delle pupille, sempre più spazio lasciato al bianco dell’occhio. Anche la bocca è semiaperta, incorniciata da una lunga barba; dell’intera scultura si può di nuovo apprezzare la policromia presumibilmente risalente all’età barocca.

Crocefisso ligneo policromo 3Nella cappella, il Crocefisso è preceduto dal ritratto della Madonna Addolorata realizzato in cera, una Madonna in lacrime, dolente, realizzata proprio in epoca barocca, meno danneggiata della statua dal trascorrere del tempo e anch’essa oggetto di un intervento di restauro. Le due opere d’arte sono di nuovo accostate e lo sono da quando – il ritratto, di gran lunga più tardo – trovarono collocazione in un altare, poi soppresso in epoca ottocentesca: due opere accomunate da un destino di devozione e gratitudine. In occasione della pestilenza che approdò a Roma nel 1658, si tramanda che proprio al Crocefisso fosse stata chiesta l’intercessione perché l’epidemia fosse debellata; i fedeli riconoscenti, in ginocchio, furono ritratti in un dipinto poi disperso.

Questa e altre vicende che hanno segnato la loro storia a partire dalla fine del XIV secolo, le ha richiamate, in occasione della presentazione avvenuta nella Basilica, Adriana Capriotti, che ha ricoperto l’incarico di direttrice lavori del restauro per la Soprintendenza Speciale per il Patrimonio Storico Artistico del Polo Museale di Roma.

Il recupero della statua, reso possibile dal finanziamento offerto dalle famiglie Stafford e Stanford di Baltimora – di cui si è fatto promotore il Cardinale James Francis Stafford, anch’egli intervenuto alla presentazione – lo hanno compiuto Cristiana De Lisio e Alessia Felici a capo del “Consorzio recro”, con la consulenza di Rita Bassotti, storica interprete dell’Istituto Superiore per la Conservazione e il Restauro, un’eccellenza italiana riconosciuta nel mondo;  da sottolineare anche il contributo operativo del Laboratorio di Restauro di Palazzo Barberini cui si deve, in questa occasione, il restauro, ad opera di Carlo Testa, della Madonna Addolorata.

Dalla presentazione ufficiale, dalla descrizione dettagliata proposta dalle restauratrici, dal colloquio con la consulente, è emerso che per operare nel restauro occorre grande perspicacia e curiosità oltre a inventiva tecnica. Ripercorriamo dunque le tappe di quella che in un certo senso potrebbe essere definita “ars discendendi et ascendendi”, perché di arte si tratta; su questo, meglio allontanare ogni dubbio: chi opera correttamente in questo campo conduce la propria abilità in uno spazio creativo che non lascia spazio a distrazioni  e arbitrii.

Nel progetto che prelude a qualunque intervento – stilato secondo un protocollo consolidato – occorre prevedere una sequenza di lavorazioni cariche di imprevisti, che sono comunque precedute dallo studio dei testi eventualmente tramandati sulla storia dell’opera in questione, dalla difficile individuazione di una datazione di massima, dall’osservazione di opere coeve e dal patrimonio di altre esperienze personali. Il tutto prima di eseguire saggi opportunamente localizzati, come dei tasselli di prima pulitura.

Le restauratrici hanno “operato” sul crocefisso con il bisturi per rimuovere alcune porzioni del primo strato; effettuata la rimozione totale della vernice mediante solventi non aggressivi, è apparso un secondo strato “grigino verdastro” e uniforme, anch’esso rimosso, fino alla decisione di attestarsi su un terzo strato (spesso ci si deve spingere oltre). In questo caso quella rinvenuta era una superficie sufficientemente integra ed estesa: era finalmente policroma, una pellicola pittorica “color incarnato” e con tanto, tanto rosso, quello “prodotto” dalle ferite.

Crocefisso ligneo policromo 2Il ricorso a indagini, ad analisi dei vari componenti, a esami diagnostici – in questo caso si sono prelevati campioni per sottoporli anche al metodo di datazione del “carbonio 14” – è indispensabile per decidere come intervenire; gli esiti preludono alla fase delle sorprese e delle conferme,  al momento delle strategie operative.  Ci si attrezza per risalire nel percorso di ricostituzione dell’opera, dove occorre dare risposte sagge e usare materiali appropriati e approvati, e proprio per questo le restauratrici hanno persino indagato in “endoscopia”, utilizzando una sonda collegata a un video; occorre trovare nell’avventura la misura delle proprie azioni. Sorprendente è stato, a questo proposito, il ritrovamento di striscioline di pergamena a chiudere lesioni del legno, cui si provvide in un lontano passato.

L’intervento di recupero della scultura lignea policroma è quindi consistito nel ripristino delle parti danneggiate; le lacune sono state chiuse con  stucco preparato con colla di coniglio e “gesso di Bologna”, su cui si è segnata ad acquarello mediante tanti puntini accostati di colori diversi una base, per ottenere quell’emissione cromatica che è propria del “divisionismo”; infine le varie parti sono state completate con la stesura di velature a vernice.

La statua ci perviene priva di spiragli di certezza documentaria, accostata nel passato all’opera di Pietro Cavallini (fine secolo XIII) ma erroneamente, non fosse altro per l’epoca in cui è stata scolpita e assemblata. L’autore del Cristo potrebbe avere attinto a un prototipo conservato nella bottega dell’artista romano, cui appartengono i magnifici mosaici della Basilica trasteverina; oppure ad altri modelli presenti a Roma, come il Crocefisso ligneo di San Paolo fuori le Mura, che Giorgio Vasari – nelle Vite degli artisti – attribuisce proprio al Cavallini. Ma che importa? Quanto conta affibbiare una paternità? Forse è più bello e importante accogliere l’invito a godere di una testimonianza che attraversa epoche e vicissitudini fino a questa compiuta restituzione.

Del resto in un’opera a finalità religiosa quello che contava nel passato era l’oggetto della devozione, non certo “la firma”, visto che poi il crocefisso doveva essere condotto in processione, incorrere nelle insidie di condizioni meteorologiche avverse e subire l’aggressione dei tarli e dei fumi delle candele.

Nei nostri tempi si è portati a cogliere legami didipendenza o influenza da scuole e autori; spesso ciò avviene più con l’intento di far risuonare un clamore di ordine attributivo, piuttosto che per condurre indagini doverose di ordine interpretativo.Invece, il senso del restauro forse è anche questo: quando è possibile e se stabilire una parola fine?E a questo proposito, curiosamente, l’attuale collocazione del crocefisso, issato su un’impalcatura da “lavori in corso”, è assolutamente temporanea; si è in fiduciosa attesa di raccogliere fondi per provvedere al restauro della Cappella che già accoglie le due opere.

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