Giancarlo Ricci
A due mesi dalla strage

Di libertà si muore

Passata l'ondata emotiva seguita alla tragedia di Charlie Hebdo, si può affrontare con più distacco il grande tema del rapporto tra libertà e satira. Privilegio d'Occidente

L’etimo di satira rinvia a saturo, a saturazione, a miscuglio, e anche al gioco sferzante del satiro, creatura lasciva e dedita a voluttuose ebrezze. Ma chi avrebbe immaginato che la satira potesse oggi diventare oggetto di tante pallottole? Dopo Charlie Hebdo e le stragi di Parigi è comprensibile che moltissimi parlino di libertà di satira e facciano di questa libertà un emblema assoluto.

Ma è proprio qui che appare un nodo: che la sfrenata libertà di satira venga fatta coincidere con l’emblema della libertà, della Libertà di noi occidentali. Quest’ultimi venerano l’idolo della libertà senza accorgerci che la libertà pone immediatamente la questione stessa dell’altro (e dell’Altro), degli altri, del prossimo, del simile, del Nebenmensch freudiano. Gli occidentali gridano che ciascuno deve essere un soggetto libero: libertà di espressione, libertà di pensiero, libertà di godere, libertà di desiderare. Il punto cieco è che non può esistere un “soggetto libero” perché il soggetto (sub jectum), per definizione, è già da sempre assoggettato. Se così non fosse la psicanalisi, ma non solo, non avrebbe più alcun senso, svanirebbe in un soffio. Rimarrebbe (ma già ci siamo) il regno dell’Io, il regno della padronanza e dell’esercizio della libertà, appunto.

Il punto cieco, invisibile e scotomizzato, è che ogni libertà ha il suo foro esterno e il suo foro interno, come dicevano gli antichi, ovvero una doppia responsabilità, verso la dimensione “pubblica” e verso quella “privata”. Più semplicemente: la scissione propugnata dalla contemporaneità, per motivi di business, di ingegneria sociale e di espansione dei mercati, tra il concetto di libertà e quello di responsabilità, promuove allegramente una schizofrenizzazione dei legami sociali e una concezione perversa della comunità. Delocalizza il “pubblico” e il “privato”, offre il diritto al godimento senza limite, addomestica l’alterità a favore dell’alterazione.

L’attuale e celebrata enfasi posta sulla satira fa pensare. Nulla contro Charlie Hebdo, anzi un omaggio. Ma che sia un omaggio alto, il più alto. Tanta enfasi sulla satira fa pensare perché in fondo la satira è una figura della comicità. La quale è decisamente diversa dal Witz, dove un frammento di verità irrompe accompagnato dalla risata, e ben distinta dalla grandiosità dell’umorismo che, incurante dell’avversità, non ride ma difende a perdifiato l’umano. Freud lo ha insegnato, ma anche Pirandello, Bergson e un numero indefinibile di saggisti, scrittori, poeti, pensatori.

No, la satira non raggiunge le vette, per sua natura. Vive e talvolta vivacchia all’ombra della trasgressione, del piccolo divertimento, della provocazione. Gioca a scompigliare il “politicamente corretto” (di questo dobbiamo darle merito). La satira attende che l’altro reagisca e accusi il colpo (purtroppo abbiamo visto). Non osa dire cosa realmente pensa ma si appoggia a ciò che è stato detto da un altro per far sentire la sua voce. Vorrebbe avere voce in capitolo ma manca di un pensiero proprio. E allora graffia, punzecchia, giunge sino al sarcasmo, si serve della parodia e della caricatura. Deturpa, sfregia, devasta. Ma soprattutto: dissacra, consacra, massacra. In nome di un voler dire… che non è detto e non si dice. Si può solo immaginare o disegnare.

Ahimè, moriremo di satira, noi sedicenti occidentali. Andremo a picco per aver imbarcato troppi satiri con le loro gaie e prevedibili ebbrezze. Moriremo saturi, pieni delle nostre satire. Saturi delle nostre libertà bulimiche, saturi dei nostri diritti preconfezionati, saturi delle nostre coscienze cinicamente coscienziose. Possiamo cedere a compromessi su tutte le altre libertà, ma alla libertà di satira non possiamo rinunciare. Per dimostrarlo dobbiamo spingere la satira fino alla blasfemia e all’insulto. Ormai, quando tutto è possibile, quando tutto è consumabile e immaginabile, rimane l’effetto speciale. Un incubo.

Il teorema risulta devastante: solo senza un limite possiamo dimostrare di essere davvero liberi. Solo così siamo davvero Occidentali e possiamo esserne orgogliosi. Di ciò che sta tramontando (alla lettera: che si sta occidentalizzando) non ci interessa un bel niente. Del resto se possiamo fare ancora satira sfrenata e gratuita, significa che gli “occidentali disorientamenti” non ci toccano.

Abbiamo la libertà, ce la siamo guadagnata: abbondante, senza limiti, cieca, sorda, autoreferenziale. Ciò che è accaduto si è incagliato in qualche angolo della nostra memoria e ogni tanto riaffiora. Non importa, avremo pure la libertà di ignorare? Ciò che oggi accade, ogni giorno in qualche angolo della storia, ci getta addosso ciò che non abbiamo voluto sapere. Non importa, abbiamo pure la libertà di scansarci, nevvero? Ciò su cui dovevamo dire qualcosa, qualcosa che ci sfiorava o ci colpiva in pieno volto, è rimasto nel mesto e composto tacere. Perché non potremmo essere liberi di sottacere? Di voltarci elegantemente dall’altra parte? La libertà riserviamola, per favore, solo per cose serie.

E così facendo ogni paradigma immunitario si sgretola, impazzisce, confonde amici e nemici, rende irriconoscibili le libertà vere da quelle apparenti, quelle proclamate da quelle praticate. Rende luccicanti quelle libertà in cui facciamo finta di riconoscerci e con cui amiamo confortarci, e getta nella dimenticanza e nel silenzio tutto il resto. Le pattumiere sono colme di quantità enormi di libertà usate e gettate. L’inconscio non perdona. E ci aspetta al varco quando meno ce lo attendiamo. Non satireggia l’inconscio. E non indietreggia. Avanza a colpi di reale.

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