Andrea Carraro
Uno spettatore a zonzo

Cinema da ritrovare

Da Visconti a Pasolini, da Branagh a Von Trier a Wim Wenders: il bello e il brutto dei vecchi film ritrovati un po' per caso. Per capire come è cambiato il nostro immaginario

Mi sarebbe piaciuto tanto fare il critico cinematografico, un tempo, all’epoca di Diario, una ventina d’anni fa, quand’ero giovane e non vedevo limiti alle mie ambizioni scrittorie. Lo proposi calorosamente anche a Nicola Fano e a Enrico Deaglio che dirigevano la rivista, alla quale collaboravo, ma per quell’incarico era già stato scelto Marco Lodoli, e, col senno del poi, posso dire che fecero benissimo. Le recensioni cinematografiche che Lodoli scrisse per Diario infatti erano/sono assai belle (oltreché molto personali) e contribuirono al successo della rivista. Per chi non lo sapesse sono state raccolte nel volume Fuori dal cinema (Einaudi), che spesso mi capita di compulsare prima di vedere qualche vecchio film degli anni 90. Tutta questa premessa per dire che quelle che seguono non sono vere critiche ma soltanto appunti frammentari di uno spettatore appassionato di cinema su alcuni classici visti o rivisti in dvd.

Visto in tivù a tarda notte causa insonnia. Partiva benissimo per svariati motivi: perché era una produzione inglese, perché aveva la sceneggiatura scritta dal Nobel Harold Pinter, perché uno due attori protagonisti era il grandissimo sir Michael Caine. Parlo de Gli Insospettabili, un film del 2007 diretto da Kenneth Branagh, remake de Gli insospettabili del 1972 diretto da Joseph L. Mankiewicz, tratto dal testo teatrale di Anthony Shaffer. Parliamo di cineatro. La prima parte è bella, senza discussioni: come monta l’odio fra i due protagonisti che si contendono una donna mentre la loro sfida via via si dilata, diventa esistenziale, sociale, infine metafisica. Non siamo lontani dalla tematica de I Duellanti, grande film di Ridley Scott tratto da un racconto lungo di Conrad. Peccato che la seconda parte si faccia manierata, difficile dire perché: eccessivamente teatrale, forse, non limpidissima e coerente nello svolgimento drammaturgico. Un’occasione mancata. Come sono spesso le opere di Branagh, eccellente attore di teatro e di cinema (anche in opere di Woody Allen), celebre per le sue riduzioni shakespeariane per il grande schermo.

Rivisto Accattone per l’ennesima volta e trovato ancora bellissimo come la prima volta. Poetico. Nemmeno una parolaccia. Le mignotte chiamate «donnacce», che tenerezza! Adriana Asti, la Morante alle Mantellate, Adele Cambria… L’invenzione di quella borgata-periferia accidentata come mondo primordiale, la magia del dialetto, quel cinismo romano però ancora tenero, pietoso. Quel meraviglioso sogno di Accattone nel vuoto sonoro scandito dal suo respiro affannoso – quante analogie sotterranee col prologo onirico di Otto e mezzo – della propria morte e del proprio funerale dal quale viene escluso, che anticipa la morte vera, dopo quella fuga pazza in moto, e lui infine sdraiato per terra, morente che dice: «Ah, ecco adesso sì che sto bene…». Un capolavoro senza tempo, memore del periodo messicano di Buñuel (I figli della violenza, 1950), ma memore anche di Boccaccio e di tanto, tanto altro…

melancholiaVon Trier sarà un filonazista, oltreché drogato, alcolista, bipolare, ecc. ma Melancholia – a onta di certe grossolane stroncature italiane – è un film di rara poesia, come se ne vedono pochi. È un film di fantascienza, se volete, un film “catastrofico”, apocalittico… A proposito, è uscito da poco un romanzo italiano la cui trama in qualche misura gli somiglia: Finis mundi di Gianluca Barbera (Gallucci). Ma soprattutto, Melancholia, è un film d’autore. Un film d’arte. Diviso in due parti, ruota attorno al rapporto tra due sorelle (grande introspezione), molto diverse tra loro, mentre la Terra è minacciata dall’imminente collisione con il pianeta Melancholia. È un film catastrofico, dicevamo, ma è pure un dramma familiare sulla depressione dagli echi bergmaniani (ricorda anche Festen, altro strepitoso film danese del 1998 scritto e diretto da Thomas Vinterberg)… Si apre col preludio di Tristano e Isotta di Richard Wagner che ritorna in qualche momento topico del film. Recitazione eccellente di Kirsten Dunst e Charlotte Gainsburg, le due sorelle, smagliante fotografia. Il film non ha pretese di verosimiglianza scientifica (astrofisica), ciò che davvero interessa Von Trier sono le reazioni psichiche, emotive dei vari personaggi (soprattutto della depressa Justine e della sorella Claire che la ospita) di fronte all’imminente catastrofe.

E mi è capitato di rivedere un film che la prima volta avevo apprezzato ma senza davvero entusiasmarmi, per via di certi pre-giudizi che avevo in quegli anni: Il cielo sopra Berlino di Wim Wenders. In questo film tutto è magico e necessario. Per tre quarti direi che è un capolavoro, l’ultima mezz’ora – quando si scioglie la storia – mi ha convinto meno, ma resta fra i risultati più alti non solo di Wenders ma di tutto il “nuovo cinema tedesco”. Fra l’altro agli estimatori di Malick (lo sono anche io) vorrei far notare che l’idea dei «pensieri poetici» dei personaggi scanditi nel vuoto sonoro qui c’era già: i due angeli che si aggirano per la metropoli tedesca possono udire i pensieri che mulinano nella testa delle persone che avvicinano, in un coacervo di grande forza poetica (c’era dietro Handke).

Rivisto infine Senso di Luchino Visconti, e continuo a trovarlo un capolavoro. Come è noto è tratto da un racconto di Camillo Boito (sceneggiato anche, nientedimeno, da Bassani) che riproduce senza traccia di calligrafismo, in una rappresentazione di tono romantico anche in certi risvolti pittorici (De Pisis, Goya…) e nelle scenografie (pure operistiche) come sempre in Visconti impeccabili, sontuose. L’ultima mezz’ora è grandissimo cinema. In generale tutte le volte che entra in campo l’attore Franzey Granger che interpreta il perfido (vile e mefistofelico) ufficiale austriaco Franz Mahler il film ha un’impennata, si eleva artisticamente. Franz è un tenente austriaco che si compra la sua diserzione con i soldi della sua amante (la nobildonna Serpieri, Alida Valli, la protagonista narrante). Con quei denari corrompe un medico dell’esercito per farsi dichiarare inabile al servizio. Lei, Lidia Serpieri, l’amante vilpesa, derisa, umiliata davanti a una giovane prostituta (“L’unica differenza fra voi è che lei è giovane e bella, e si fa pagare dagli uomini, mentre tu, ah, ah, ah….. Vattene, vattene, via, sguardrina, ah, ah, ah….”). Quel riso beffardo in faccia alla donna da parte di Franz (che attore Granger!. altro che la Valli, altro che Girotti! pur bravi se diretti da Visconti) ti resta dentro ed è una risata metaforica su un mondo che sta crollando con tutti i suoi riti e i suoi fasti e i suoi orpelli. Lei comunque si vendica, lo denuncia e lo fa fucilare in una scena finale che ricorda La fucilazione di Goya.

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