Davide D'Urso
Storie di scrittori eccellenti

Candido e Comisso

La prima volta che ho incontrato Candido è stato a una presentazione. Un incontro incredibilmente noioso. Poi, al momento dei saluti, mi sono presentato col mio dattiloscritto: sembrava un raid, a ripensarci

M’è venuto in mente d’un tratto, così, leggendo un racconto di Goffredo Parise che parlava di Giovanni Comisso. E ho pensato che Comisso poteva essere lui. Anche se io non sono Parise.

La prima volta che ho incontrato Candido è stato a una presentazione. Un’iniziativa istituzionale, come si dice, e incredibilmente noiosa che – si vedeva – stava annoiando un bel po’ anche lui. Poi, al momento dei saluti, mi sono presentato col mio dattiloscritto: sembrava un raid, a ripensarci. E infatti, la faccia che ha fatto m’è sembrata proprio quella, la faccia di uno che ha improvvisamente realizzato di trovarsi di fronte all’ennesimo, subdolo manoscrittaro. E ho pensato: “…mò me lo tira appresso!”. Ma c’era tanta gente intorno a noi e così, no, non me l’ha tirato appresso, non si è sottratto. Lo vedevo allontanarsi pian piano con il malloppo di fogli in mano, era la mia grande occasione? A me non sembrava. Se ne disferà al primo cestino, mi dicevo. Probabilmente perché uno come me si sarebbe comportato in questo modo. E invece mi telefonò qualche mese dopo, io ormai non ci speravo più, quando: «Pronto?». «Sono Raffaele La Capria». E io: «Grazie». Fu allora che conobbi Candido. L’aveva letto, gli era piaciuto. Ma non era questo, era l’entusiasmo con cui ne parlava, era una cosa diversa, era lui.

Gli anni passano, quel dattiloscritto nel frattempo diventa un libro, mentre io prendo a lavorare come libraio. E appena mi è possibile lo invito in libreria. Una festa. La gente lo circonda d’affetto. Sissignore, affetto. Uno scrittore suscita mille reazioni. Lo so per certo. Scruto sempre l’umore dei lettori, e nella migliore delle ipotesi sui loro volti leggo stima, rispetto, curiosità, interesse. Ma lui è un’altra cosa, la gente gli vuole bene. Non lo so il perché, non è normale, penso. O forse sì. Forse è una cosa naturale se uno sa come parlare alle persone. Illuminismo del cuore, dicono di Candido. Ora ne comprendo il senso. Parla dei suoi libri e i lettori lo ascoltano rapiti. Racconta la storia dell’uccellino che gli si posa sulla spalla e di lui che, un giorno capisce, deve imparare a cercare le parole giuste per descrivere quello che gli succede intorno; insiste, perciò, sul problema del linguaggio, e improvvisa una lezione di letteratura che conquista l’intero uditorio. Guardo tutte quelle facce: gente comune, nessun amico, o giornalista, addetti ai lavori e manoscrittari. Gente qualunque di mezz’età dell’hinterland, invece. Padri di famiglia che hanno raggiunto la libreria dopo il lavoro, madri che hanno lasciato il figlio chissà dove – o, ahimè, nel settore ragazzi a far danno –; e chi ha il bambino piccolo, ora se lo tiene stretto in grembo cercando di non perdersi una parola di quest’uomo. Poi, quando la soggezione nei confronti del personaggio finalmente svanisce, cominciano a tempestarlo di domande. Si finisce come sempre per parlare della città e si sente: sembra quasi di toccarla con mano, un bisogno di capire, un’emergenza di civiltà che mi rende orgoglioso di essere un libraio. Per non dire della sensazione che ho in questo momento, mentre sento i lettori discutere tra loro, entusiasti come non li ho mai visti. Che la Letteratura abbia ritrovato il suo senso più profondo in questa piccola libreria di provincia, mescolandosi finalmente tra la gente. E il merito è tutto suo.

Mesi dopo lo raggiungo a Roma. Sono a casa sua. A bocca aperta davanti alla sua libreria, vorrei che mi parlasse di tutti i libri che ci sono là dentro, la stanza ne è letteralmente tappezzata. M’è già capitato di sentirlo parlare dei libri degli altri: “Letteratura e salti mortali” è un libro formidabile. Lui invece m’invita ad affacciarmi al suo terrazzo, vuole farmi vedere il panorama, la città, i tetti di Roma, la luce che illumina le strade, e la gente che passeggia, la vita. Poi mi dice: «Facciamo due passi?».

Sono a spasso per il centro di Roma con Raffaele La Capria al mio fianco, sono emozionato e felicissimo; vorrei godermi in silenzio il momento ma la conversazione prende piede e tra una battuta e l’altra ci ritroviamo di fronte alla chiesa di Sant’Ignazio. M’invita a entrare. La chiesa é famosa per l’effetto trompe l’œil, un gioco di prospettive che sembra faccia muovere i dipinti sul soffitto. Mi appoggia una mano sulla spalla e mi fa camminare a testa in su perché mi goda lo spettacolo; intanto sento la sua voce che mi descrive quello che sto guardando. E capisco la differenza che c’è tra il vedere e no, il guardare non c’entra niente, so guardare anch’io, quanto meno perché i miei occhi sono più giovani dei suoi di quasi mezzo secolo. È il saper raccontare che fa la differenza.

All’uscita c’imbattiamo in due turiste e mentre m’incarto mani e piedi con la lingua, lui, allegro, spigliato, le intrattiene col suo inglese: non so più chi tra i due abbia veramente trent’anni e chi novanta.

Siamo all’oggi. Una casa editrice ha deciso di pubblicare un mio libro. Vado a Roma per firmare il contratto e sento il bisogno di raccontargli tutto, di condividere con lui la mia felicità. Mi dà appuntamento sotto casa sua. Lo aspetto qualche minuto poi lo vedo arrivare. Lui non si accorge subito della mia presenza e sembra avere un’espressione contrariata. Ma appena incrocia il mio sguardo mi fa un sorriso che mi riempie di gioia.

E non ho badato all’importanza di quanto stava succedendo al momento. Come sempre, d’altra parte. Nessuno pensa o dice mai nulla di veramente importante, al momento. Chissà perché, ci si aspetta sempre di dire o pensare qualcosa di memorabile in certi frangenti della vita. Invece, niente. I ragionamenti importanti si fanno sempre a posteriori. E a posteriori m’è tornata alla mente quell’immagine, di lui che pian piano s’avvia al bar: un fotogramma, niente di più. Un ricordo al lampo di magnesio catturato mentre andavo avanti e indietro sull’altro lato del marciapiede e che ho conservato per sempre nella mia memoria.

E ho pensato a una cosa che una volta ha scritto Silvio Perrella, una cosa letta anni prima e mai più dimenticata, come le lezioni importanti. Era un’immagine, quella che aveva descritto Perrella, impietosa, dura, che si fa fatica ad accettare. Descriveva la figura di Mario Pomilio. Un Pomilio stanco, ormai anziano, che avanza con passo incerto lungo la strada, costretto per via della malattia a indossare delle scarpe da ginnastica. Ecco, io che Pomilio non sapevo nemmeno che viso avesse, in testa a me quel vecchio me l’ero sempre immaginato con la faccia di La Capria. Forse perché pensare a Candido con le scarpe da ginnastica era la cosa più oltraggiante che potesse concepire la mia fantasia. E l’unica in grado di combaciare con l’insulto a quell’uomo e a quell’artista che Perrella aveva così potentemente descritto. Un pensiero venuto a posteriori, così, per caso. E poi, quelle due immagini hanno finito per accavallarsi e confondersi l’una all’altra: il passeggiare lento e incerto di Mario Pomilio e l’immagine reale di La Capria che s’avvia, non dico spedito, anzi, mezzo acciaccato pure lui ma, sembrerà assurdo: con un bellissimo paio di mocassini. E un’espressione, dopo avermi scorto tra la folla, che era la risposta a tutte le inquietudini, allo smarrimento che alle volte ci assale quando la paura della morte ci prende alla sprovvista.

Ci accomodiamo in un bar, parliamo di un po’ di cose. Intanto ordina una fetta di torta, più gli anni passano più diventa goloso. Mi sembra di aver capito che alla sua età non dovrebbe mangiare certi cibi ma quand’è con me fa un piccolo strappo e mi piace vedergli assaporare la torta.

“Poesia”. È in circostanze come queste che mi torna alla mente quel racconto di Parise su Giovanni Comisso, sempre più vivido nella memoria perché ravvivato dall’esempio che il Maestro mi fornisce ogni volta che lo incontro. In quel racconto, un Comisso gravemente malato reagiva alla malattia con la stessa leggerezza con cui aveva celebrato la vita da giovane. Ecco, io penso a Candido, alla gioia di vivere che gli ho visto dimostrare in questi anni, e l’ultima cosa che mi viene di pensare è la morte. Penso alla Vita, invece. E prima ancora alla Poesia. Mi sembra, a conti fatti, che il segreto sia tutto qua, in questo connubio; nella ricerca di un equilibrio autentico tra coscienza e abbandono, tra passione da un lato e rigida logica dall’altro, è questa la strada che Raffaele La Capria ha indicato per una vita intera.

Alla fine di quella strada c’è un bellissimo sogno. Pronto a deludere chiunque si provi a inseguirlo, eppure irrinunciabile, come sono le utopie, il sogno atavico e partenopeo dell’armonia perduta e infine ritrovata.

* * *

Il racconto “Poesia” è in “Sillabari”, di Goffredo Parise. Edizioni Adelphi, Milano 2009.

Il testo di Silvio Perrella è la prefazione a “Una lapide in via del babuino”, di Mario Pomilio. Edizioni Avagliano, Cava de’ Tirreni 1991.

Il saggio di Perrella è richiamato anche da Antonio Franchini nel suo “Quando vi ucciderete, maestro?”. Edizioni Marsilio, Venezia 1996.

L’incontro con Pomilio gravemente malato è rievocato da La Capria in “Napolitan graffiti”. Ora in “Napoli”. Edizioni Mondadori 2009.

“Poesia” è citato infine da Ernesto Ferrero nella prefazione a “Satire italiane”, di Giovanni Comisso. Longanesi, Milano 2008.

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