Anna Camaiti Hostert
Cartolina dall'America

Super Bowl Show

4.000 tonnellate di pop corn, 8 milioni di libbre di guacamole, 14.000 tonnellate di patatine. Poi spot da 4 milioni e mezzo di dollari ogni 30 secondi. Sono i numeri della finale di football americano. E lo chiamano sport...

Non credo che sia possibile spiegare come funziona il football americano e soprattutto spiegare e tradurre i ruoli dei giocatori. E forse non è neanche interessante. Certo si può dire, però, che nella famosissima finale del Super Bowl in Arizona tra i Patriots di Boston e i fortissimi Seahawks di Seattle i primi, di straforo e all’ultimo minuto, hanno vinto. Eroe della serata è stato quello che si definisce un free agent, l’ultimo arrivato, Malcom Butler, il quale, intercettando la palla dell’avversario ha bloccato il punteggio dei Patriots che già stavano vincendo per 28 a 24 consentendone la vittoria. Il quarteback Tom Brady vissuto nel culto di un grande campione del football americano, Joe Montana, adesso ha uguagliato il suo idolo vincendo anch’egli per quattro volte il Super Bowl.  Ma questa finale annuale per l’America è divenuta qualcosa di più importante di una semplice competizione sportiva.

Un divertente editoriale del Chicago Tribune scrive «Il Super Bowl è quello della presunzione che il junk food ti faccia bene. È quello della ghiottoneria commerciale. E forse tra le altre cose è opportuno ricordare che domenica c’è anche una partita di football. Ma questa non è stata mai semplicemente un gioco del NFL (National Football League) almeno negli ultimi vent’anni. A un certo punto il rituale annuale ha trasceso la partita di football – spesso pure giocata male – per diventare pura cultura popolare». La partita è divenuta una scusa per parlare d’altro e fare altro. Difatti durante questo che a ragione può essere definito un evento mediatico d’importanza nazionale si vendono 4.000 tonnellate di pop corn, 8 milioni di libbre di guacamole ( tradizionale salsa di avocado e pomodori che accompagna con le tortilla chips di mais messicane) e 14.000 tonnellate di patatine di tutti i tipi. È previsto inoltre che durante la giornata del lunedì che segue la partita gli acquisti di antiacidi salgano del 20% e che circa 1 milione e mezzo di persone invece di andare a lavorare stiano a casa per malattia. Perché’ l’intero meccanismo del marketing della cultura popolare è costruito per fare sedere ognuno di noi di fronte alla tv per circa 6 ore durante le quali non si può fare altro che mangiare, bere ed essere il target di pubblicità che cercano di conquistare il nostro favore.

E, dunque, oltre al cibo anche l’advertising è l’altro grande protagonista della serata. Al primo Super Bowl del 1967 la cifra spesa in pubblicità era enorme per l’epoca: 267.000 dollari per uno spot di 30 secondi, ma ancora niente al confronto di quella di oggi che ha superato del 1000%  quella di allora, attestandosi sui 4 milioni e mezzo di dollari.  Naturalmente l’unico prodotto venduto è, come si può intuire, l’audience in quanto un terzo dei 300 milioni di americani è testimone di questo evento. Sono famose le pubblicità del Super Bowl che di solito brillano per il loro senso di humour, ma in generale anche per una strisciante misoginia. Fanno  appello di solito al machismo sia esso rappresentato dalla forza fisica o dalla capacità di dominare i propri sentimenti. Perché sono dirette principalmente ad un pubblico maschile che costituisce la maggioranza degli spettatori della partita. Per cui quelle del cibo e degli alcolici prima fra tutte la birra la fanno da padrone. Famosa nel passato quella della Budweiser con tre rane in uno stagno che, gracidando, sillabavano il nome della birra. E quelle delle bibite storiche come la Coca Cola e la Pepsi.

Vale la pena di ricordarne due: la prima degli anni Settanta quella di un bambino che di fronte ad un giocatore famoso di football, Joe Green, con un piede dolorante gli offre una Coca Cola ed in cambio ottiene la sua maglia e l’altra quella di Cindy Crawford giovanissima, bellissima  e ancora sconosciuta che durante un’estate torrida in shorts si avvicina a un distributore automatico e prende una Pepsi, mentre da lontano due bambini la guardano a bocca aperta, ma solo per poi ammirare la nuova veste della lattina. E poi c’è quella di Michael Jordan e Larry Bird, due grandi campioni del basketball che fanno la pubblicità di McDonalds e si sfidano a fare canestro dai grattacieli di Chicago. Ce ne è infine una della Apple che merita di essere ricordata perché è la prima in classifica delle 10 pubblicità’ più famose del Super Bowl. È del 1984 girata da Ridley Scott sul tema dell’opera omonima di George Orwell dove ad una folla di zombie, di big brothers, vien tirato un martello che li scuote dalla loro ipnosi e li porta a pensare.

Quest’anno le pubblicità non sono state particolarmente acute o originali. Ma una in particolare merita attenzione: quella in cui si chiede a dei ragazzi giovani e a delle bambine cosa significhi “correre come una ragazza”. Dopo alcuni ovvi stereotipi iniziali mimati da giovani uomini e donne che imitano la “corsa femminile” il commercial presenta un crescendo. Prima ci sono alcune ragazzine che corrono veloci e bene, poi la domanda è rivolta a una bambina la quale senza muoversi e con grande convinzione da’ la definizione più preziosa semplicemente dicendo” significa correre più veloce che puoi”. E’ interessante questo nuovo stile perché fa appello alla distruzione di quella misoginia che ha sempre animato le svariate rappresentazioni pubblicitarie di questo evento.

Infine il Super Bowl significa spettacolo e intrattenimento puro con grandi coreografie e grandi star. Quest’anno è toccato a Katy Perry che è apparsa a cavallo di una tigre di metallo semovente facendo della spettacolarità pura per un doppio pubblico quello dei bambini e quello più maturo e più smaliziato dei genitori adulti. Un’artista che, come qualcuno ha scritto, se non fosse esistita, la NFL avrebbe dovuto inventarla. Dodici minuti con quattro cambi di abito e due ospiti di tutto rispetto Missy Elliot e Lenny Kravitz. E  con Idina Menzel che ha cantato l’inno nazionale.  E anche se Obama non ha parteggiato per nessuna delle due squadre, visto che i suoi Bears di Chicago non erano in gara, si è goduto lo spettacolo facendosi della birra alla Casa Bianca e vantandosi che era dai tempi di George Washington che non si fabbricavano bevande alcoliche nella residenza presidenziale.

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