Gianni Cerasuolo
Esce il docufilm «Silencio»

Sparate sul cronista

In Messico i giornalisti che raccontano la verità su potere e malavita hanno i fucili puntati contro (fucili che troppo spesso sparano). Ma anche da noi, in Calabria, le cose non vanno così bene. Lo racconta un documentario di Attilio Bolzoni e Massimo Cappello

Ci sono tanti modi per tappare la bocca ad un giornalista. In Messico hanno scelto quello più sbrigativo ed efficace: li ammazzano.  Come fanno i terroristi dell’Is. In quindici anni ne hanno uccisi 80. Di altri 16 non si hanno più notizie: scomparsi. I mafiosi italiani invece usano altri metodi per zittirli: minacce, aggressioni, bombe. “Avvertono” incendiando auto e case, spaventando i familiari. Solo in questo inizio di anno sono stati registrati nel nostro Paese già 18 casi di minacce (secondo Ossigeno per l’informazione, l’osservatorio sui giornalisti minacciati che ha rilevato in questi primi giorni del 2015 altri 21 casi per episodi accaduti negli anni scorsi e appresi soltanto ora). Ma i malavitosi e i loro legali usano anche mezzi più raffinati come arma di pressione, un modo ormai diffuso per condizionare il lavoro di un giornalista: la querela per diffamazione, lo spauracchio del pagamento di una montagna di soldi. Richieste di risarcimento di milioni di euro, in certi casi. Così si può ottenere il silenzio. Del giornalista che si spaventa e dell’editore, quando c’è, che invita il dipendente a lasciar perdere, a chiudere un occhio. Ma non sempre è così.

locandina silencioSilencio è il titolo di un film realizzato da Attilio Bolzoni, inviato di Repubblica, attento e coraggioso osservatore dei fenomeni criminali, e da Massimo Cappello, che ha curato la regia. È un viaggio che comincia dal Messico e finisce in Italia, in Calabria, la «parte più messicana del nostro Paese». Certo non l’unica regione italiana infestata dalla criminalità e dalle complicità della classe dirigente: nelle intercettazioni delle ultime inchieste si sentono dialetti del Sud, inflessioni emiliane, parlate del profondo Nord. È un percorso vasto quello compiuto dal film: dalle carreteras deserte del Tamaulipas, la regione nord-orientale del Messico che confina con il Texas, alle strade dell’Aspromonte e della Locride, territori lambiti e attraversati dalla statale 106, la statale Jonica che va da Reggio Calabria a Taranto. In Messico la vita di un giornalista non vale niente, in Calabria la vita di un giornalista può essere un inferno.

Dal 2004 al 2012 in Messico sono state uccise 136.100 persone, quelle scomparse sono 30 mila (una cifra che ricorda quella dei desaparecidos della dittatura argentina): una mattanza che non risparmia nemmeno i più piccoli. Si calcola che siano stati uccisi 350 bambini. A settembre dello scorso anno sono stati massacrati 43 ragazzi di una scuola rurale di Ayotzinapa, nello stato del Guerrero. La polizia gli ha sparato contro nel corso di una manifestazione: sei morti. Gli altri giovani, la maggior parte, sono scomparsi: hanno ritrovato i loro resti vicino ad una grande caserma militare.

Il Messico non produce coca ma è diventato da molti anni un corridoio di distribuzione mondiale di coca che arriva dalla Bolivia e dalla Colombia innanzitutto. I narcotrafficanti dettano legge, si combattono tra di loro, c’è stata una vera e propria guerra tra i vari cartelli che poi corrompono autorità e chi amministra regioni e piccoli centri. Il governo centrale ha tentato di contrastarli, ha schierato truppe, ha ottenuto effimeri successi. Il traffico di droga continua ininterrotto, il marcio è esteso.

anabel hernandezChi si oppone a tutto questo, chi denuncia la corruzione e le collusioni tra politici e criminali, tra malavita e poliziotti, chi rivela le impunità di cui godono i corrotti, deve essere eliminato. Ma i giornalisti messicani non muoiono ammazzati soltanto dai criminali. Quasi sempre i reporteros sono tolti di mezzo dal Potere: i mandanti sono sindaci, governatori, ufficiali di polizia e dell’esercito. Racconta Anabel Hernandez (nella foto), giornalista di Reporte Indingo e autrice di un libro sui signori del narcotraffico: «Se vedo arrivare a casa persone in uniforme, ho paura». Nel 2010 denunciò attraverso una “Lettera aperta” il tentativo di ucciderla da parte dei vertici della Segreteria alla Sicurezza. «Simuleranno un incidente, una rapina, un tentativo di sequestro… La corruzione prospera nel silenzio e la mia unica “colpa”… consiste nel fatto che ho osato ribellarmi alla consegna del silenzio e, anzi, ho fornito alle persone il potere che deriva dalla conoscenza di determinate questioni. Questo è ciò che temono …».  Un gruppo di poliziotti tentò anche di eliminare i sei, sette agenti che facevano da scorta alla donna.

Diego Enrique OsornoDiego Enrique Osorno (nella foto) è un altro giornalista-scrittore in pericolo. Lui è una specie di Roberto Saviano messicano, ha raccontato in molti libri la sua Gomorra, come ha scritto Attilio Bolzoni su Repubblica. È una firma nota in campo internazionale, e forse proprio questanotorietà gli permette di sopravvivere senza che abbia dovuto piegarsi. Ma guardandosi le mani, Osorno è consapevole del fatto «che queste sono le mani di un cadavere». Diego, perché uccidono i giornalisti? «Perché facciamo tremare con le parole. Mi sono ritrovato a fare il corrispondente di guerra a casa mia». Regina Martinez lavorava per un settimanale, aveva scritto di poliziotti al servizio di un cartello di narcotrafficanti: poche settimane dopo – era l’aprile 2012 – l’hanno trovata strangolata e seviziata a casa sua. Nessun colpevole. Forse si è trattato di una rapina, hanno fatto sapere. Forse un amante respinto, hanno insinuato. Perché i giornalisti in Messico, osserva Attilio Bolzoni parlando con la Hernandez, muoiono sempre per questioni di sesso e di corna.

Il viaggio esplora villaggi desolati e disabitati, luoghi affollati e opulenti, le spiagge bianche della Riviera Maya, posti dove la gente si diverte e dove si fanno affari. La costa caraibica del Messico è una miniera d’oro. Per molti. Per gli italiani, innanzitutto: tanta gente onesta che ha impiantato un’attività commerciale. Ma altri hanno investito per riciclare il denaro lurido, per importare droga in Italia. Ci sono tre voli al giorno dall’Italia per Playa del Carmen, una delle località più note e frequentate. La nostra criminalità qui è di casa: mafiosi, ’ndranghetisti, camorristi.

In questa zona, racconta ancora il film, lì sul confine dove scorre il Rio Grande, molti messicani fanno i sindaci da una parte e i turisti facoltosi dall’altra parte con il denaro della corruzione. Per esempio a Roma: a Roma City, Texas, Stati Uniti d’America. Questa è la Terra di mezzo americana, affari sporchi che fruttano, vita allegra e godereccia: gli americani chiudono gli occhi, nessuno fa domande, i gringos hanno troppi interessi nella nazione vicina. La maledizione del Messico, diceva Octavio Paz, è quella di essere lontano dal Dio e vicino agli Stati Uniti.

Nonostante tutto, i giornalisti messicani sono riusciti a formare un gruppo, il Gruppo Alfa, dove i reporteros si scambiano informazioni, pubblicano articoli con questa sigla per evitare rappresaglie. Difficile immaginare una cosa del genere in Italia: li vedete giornalisti del Corsera o di Repubblica che si scambiano informazioni? Certo, in privato può anche accadere. Ma è difficile pensare che possano uscire articoli con una sola sigla su vari quotidiani o periodici. Eppure Attilio Bolzoni ama ricordare di quando, giovane cronista all’Ora di Palermo, era corso sul luogo dell’omicidio di Boris Giuliano, il capo della squadra Mobile di Palermo, assassinato dalla mafia nell’estate del ’79. «Avevo 23 anni, scrissi un buon pezzo, ma mi dissero che non l’avrei firmato. Ci rimasi male. Metteremo tutte le nostre firme in un box a parte, aggiunsero, è un modo per proteggere chi scrive. Ecco all’Ora in quegli anni avevamo anche noi il Gruppo Alfa».

Michele AlbaneseSi avverte, al contrario, la solitudine quando la cinepresa inquadra i nostri reporteros. Quelli come Michele Albanese (nella foto) che vive sotto scorta dalla scorsa estate nella Piana di Gioia Tauro. Quelli come Peppe Baldessarro che lavora a Reggio Calabria, oggetto (con altri colleghi) di minacce e intimidazioni. Entrambi hanno scritto dei legami tra politici e cosche, di delitti, di patrimoni illeciti sul Quotidiano della Calabria. Albanese anche di inchini di santi e madonne verso le case di boss della ‘ndrangheta. «Uno si aspetta di trovarsi contro i boss, io mi sono ritrovato contro addirittura un prete» racconta nel docufilm. Per poi aggiungere con amarezza: «A che cosa è servito, tutto questo?» pensando alla vita blindata che è costretto a fare, ai rischi che corrono i suoi familiari. Perché, al di là della solidarietà spesso soltanto di facciata, a fare terra bruciata attorno a chi scrive cose scomode ci pensano non solo i mafiosi ma anche i politici. O quelli che dovrebbero rappresentare lo Stato. Ricorda Baldessarro: «Giuseppe Scopelliti, l’ex governatore della Calabria, ha sempre detto che sul malaffare i giornalisti hanno scritto falsità!. Scopelliti è stato condannato in prima istanza per falso in bilancio quando era sindaco di Reggio e costretto a dimettersi dalla Regione. «Ci sono tre modi per far stare zitto un giornalista – continua il cronista mentre scorrono immagini di Reggio e del porto di Gioia Tauro dove i carrelli che sollevano i containers si muovono come dei pupari che tirano i fili dei pupi politici –: o lo ammazzi, ma oggi non si fa più, perché rischi di fare troppo rumore; o lo corrompi; oppure imbastisci una campagna per denigrarlo, per farlo diventare un personaggio negativo». Basta poco. Perciò questi uomini che usano battere i polpastrelli sui tasti del computer non devono commettere errori, devono essere rigorosi, scrivere avendo le cosiddette “pezze d’appoggio”, prove, documenti per accusare e denunciare. È allora che scatta la reazione rabbiosa per ridurli al silenzio.

I mafiosi non uccidono i giornalisti ma sovente minacciano di sparare. Giovanni Tizian, giornalista oggi all’Espresso, è stato oggetto di cattivi pensieri, diciamo così, da parte di un imprenditore, ritenuto legato alla ’ndrangheta: «O la smette o gli sparo in bocca…», disse al telefono parlando di Tizian. Da allora il cronista si muove con un paio di poliziotti vicino. Una vita di segregazione, come va scrivendo da anni Saviano. Una non-vita, un inferno. Il Messico poi non è così lontano.

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