Nicola Bottiglieri
Una memoria da ritrovare

Per Giordano Bruno

Il grande filosofo nolano fu bruciato 417 anni fa. Molti di quanti vanno a tirar tardi in Campo de' Fiori non lo sanno. Perché non mettere sotto alla statua i suoi versi scritti prima di essere bruciato? «Vola piccolo gabbiano,/ vola/ sin dove si fondono cielo e mare»

Il 17 febbraio 1600, nella piazza Campo dei Fiori a Roma, fu spogliato, legato ad un palo, messo su una catasta di legno e bruciato dalla Santa Inquisizione il filosofo di Nola Giordano Bruno, mentre intorno a lui l’Arciconfraternita di San Giovanni Decollato cantava salmi e litanie, gridando di pentirsi. In quegli anni, vedere lo spettacolo di uomini torturati o uccisi in pubblico non era una novità e lo sarà ancora per molto tempo. Inoltre Bruno non era il primo cittadino di Nola ad essere bruciato vivo a Roma. Nel 1556 lo studente Pomponio de Algerio era stato immerso a Piazza Navona in una pentola piena di olio bollente, pece e trementina, morendo 15 minuti dopo senza dare un grido, ma il filosofo era un uomo conosciuto in tutta l’Europa, la sua morte doveva essere un ammonimento per tutti i paesi che non riconoscevano l’autorità della Chiesa di Roma.

«E così arrostito miseramente morì, andando ad annunciare a quegli altri mondi da lui immaginati, in che modo gli uomini blasfemi ed empi sogliono essere trattati dai Romani». Erano trascorsi 9 anni dal suo arresto a Venezia: dopo essere stato torturato, era stato chiuso in una strettissima cella delle carceri di Tor di Nona, di fronte a Castel Sant’Angelo. Non aveva voluto rinnegare il contenuto dei suoi scritti. Anzi, durante la lettura della sentenza aveva sfidato i suoi giudici dicendo che avevano più paura loro a condannarlo che egli a morire. Forse sapendo che gli avrebbero messo la «lingua in giova», una mordacchia che gli avrebbe impedito di dire qualunque cosa, facendolo sbavare e rantolare col respiro fino alla fine, aveva vergato nella cella questi versi: «Vola piccolo gabbiano,/ vola/ sin dove si fondono cielo e mare/ e vento e onde cantano e piangono l’accordo della nostalgia,/ vola su questa meste quiete,/ dove il mare giace silente,/
sino a quanto di te la volontà e la speme/
sconfiggeranno lo spazio infinito./ Vola piccolo gabbiano,/ da colei che più di tutte ho amato./ Leggero come un uccello è l’animo mio se presto saremo uniti».

Quando rileggo questa poesia, ricordando che l’uomo che l’ha scritta sapeva di andare di lì a poco sul rogo, immagino cosa potesse rappresentare per lui un gabbiano. Per noi è il bianco uccello che vola sul mare, trasmettendo limpida gioia perché si muove fra acqua e luce. Il suo colpo d’ala meraviglia per forza e leggerezza, il grido rauco parla di pesci, alghe e onde incessanti. Tutte queste cose Bruno le sapeva e noi le percepiamo intensamente fra le righe delle sue parole. Ma questa poesia è ancora più straordinaria se immaginiamo che il condannato a morte l’abbia scritta per fuggire, anche solo nel tempo della scrittura, con l’immaginazione dalla cella di pietra e dalla barbarie dei suoi aguzzini. In quel momento il condannato non fu solo scrittore, ma divenne egli stesso uccello la cui bellezza divenne pari alla violenza delle ultime ore. La trasformazione dell’uomo in questo bianco simbolo della libertà è contenuta nelle parole dei versi, ma la bellezza di cui sono rivestite è procurata dal fatto che noi sappiamo che di lì a poco il fuoco ucciderà una delle menti più straordinarie del suo tempo. Se per miracolo il rogo fosse stato spento, quelle parole avrebbero perso forza, sarebbero diventate solo un inno allo spazio trasparente, al silenzio sereno, alla nostalgia. Giordano Bruno fino alla fine non rinnegò i suoi scritti, non cancellò dalla sua mente «quegli altri mondi da lui immaginati», perciò attraverso la sua morte diede al gabbiano la drammatica bellezza di cui ci accorgiamo ora.

Conosco da tempo quei versi, attraverso il film Giordano Bruno di Giuliano Montaldo del 1973 interpretato da Gian Maria Volonté, e fin da allora mi resi conto che il significato delle parole varia a seconda dei comportamenti che manteniamo prima e dopo averle pronunciate. Solo chi è disposto a buttarsi nel rogo, capisce la tremenda debolezza delle parole. Intuisce che il loro significato non è eterno, deve essere conquistato giorno per giorno, perché esse da un momento all’altro possono diventare vuoti contenitori di suoni, conchiglie senza perle, gabbiani senza ali, mari senza onde. Guadagnarsi il significato delle parole può essere lo scopo di una vita. Anzi l’ultimo istante di una vita può trasformare le parole in marmo o vento.

campo de fioriMa cosa sono le poesie se non trasportano il lettore nel mondo dal quale sono uscite? L’immaginazione non è la forza dei deboli, è la luce che illumina le cose, proprio come fa il maestro delle luci nel cinema, che a seconda della luminosità di cui ricopre gli oggetti, da ad essi anima, forza e vita. Bruno immaginò di essere un gabbiano prima di salire sul rogo e gabbiano fu fino alla fine, se qualche grido rauco gli uscì dalla bocca straziata dalla mordacchia, non fu di dolore ma di sorpresa come fanno i gabbiani quando avvistano il pesce nel mare. E se il suo corpo arrivò fino al cielo, erano le sue ali che lo portavano in alto, non il fumo della legna che gli bruciava le carni. Divenne uccello, volò fin dove si fondono cielo e mare, poi con la forza della volontà e della speranza continuò a volare fino a sconfiggere lo spazio infinito. Dopo che lo ebbe visto, ritornò sulla terra e attese la morte.

Qualche settimana fa ero a Campo dei Fiori e assistevo allo spettacolo festoso di centinaia e centinaia di giovani, birra alla mano, seduti ai piedi del monumento, e mi chiedevo se conoscono la rara bellezza di questi versi. E quanto strazio c’è voluto per renderli così belli. Poi due ragazzi hanno detto che quello era il monumento alla Madonna, allora ho deciso di scrivere queste righe. Non si potrebbero incidere quei versi alla base del monumento?

Facebooktwitterlinkedin