Silvio Perrella
Uno scrittore in visita

Gabbie a Milano

Chagall, Van Gogh, Giacometti, Bramante: a zonzo per le mostre della città. E alla fine un solo elemento unifica tutti gli sguardi, tutti gli artisti. Al di là dei tempi e degli stili. Forse, il problema, è proprio nel «guardare»

1. Inizio d’anno. A Milano. Giornate senza pioggia, non freddissime, luce geometrica. Si va a passeggio con gli occhi che cercano dettagli. Comparazione di Gallerie: quella di Napoli ha un’ariosità maggiore in alto; questa meneghina è più risolta in basso, e inoltre è stata fatta atterrare tra le due maggiori piazze della Città: tra il Duomo e la Scala, e il viavai è continuo, mentre a Napoli a volte s’interrompe. E quante mostre a portata di mano! Molte sono a Palazzo Reale; nell’avvicinarsi si vedono già le file, soprattutto per Chagall. Ma Van Gogh si difende.

Mi dò la regola d’individuare un quadro, un solo quadro per mostra, e descriverlo. Non è facile, perché la mostra di Chagall è davvero ricca e si va avanti con gli occhi che sfavillano di gioia visiva.

Le sue coppie si dànno la mano; vanno, incontrando il dono della leggerezza: lei, se non fosse per lui che la tiene stretta, volerebbe in cielo come un palloncino. Si siedono su una panchina, attraversano la Storia, le guerre, i viaggi.

Bella, la prima moglie del pittore, muore. E lui continua a dipingerla, ma come un’ombra; un’ombra che dà senso ai colori che la circondano. Il dolore non lo ferma, così come non l’hanno fermato  le storture del mondo.

Chagall possiede un codice traduttorio infallibile: è quello della fiaba. La prima cellula la estrae dalla sua piccola città. Si chiama Vitebsk. La ritrae di continuo, anche se da tempo vive ormai altrove, in Francia. La fiaba deforma lo spazio: lo comprime o lo allarga a seconda dei casi. E mette sullo stesso piano persone animali e oggetti. Chagall illustra le fiabe di La Fontaine perché non poteva fare altrimenti. Disegna costumi per il teatro. E sempre è lui. Fino a congedarsi con la raffigurazione di un Don Chisciotte sorprendente.

Il quadro su cui mi fermo raffigura una gabbia. È del 1925. La gabbia non è poggiata da nessuna parte e non è attaccata ad alcunché. Dentro ci sono tre uccellini. Cantano? Non lo sappiamo. Fuori un uccello-uomo-donna suona il violino. Tutt’intorno c’è un frusciare di verde, che invade anche una parte della gabbia. A ben guardare, sembra che la gabbia dondoli, dondoli su se stessa come se fosse un pianeta.

A sinistra c’è un’ombra biancastra.

Cos’è?

Forse una ciotola, che fa il paio con l’altra su cui si appoggia uno dei due uccellini; una ciotola rossa e gialla. In entrambe c’è l’acqua dell’immaginazione, quell’acqua  di cui Chagall era possessore. La base aerea della gabbia è fatta di un legno colorato in blu. Com’è bello e seducente.

chagall La pendola dall’ala blu,Chiudo il taccuino. E vado oltre. La regola di un solo quadro vacilla di fronte alla messe d’immagini che la mostra fa baluginare innanzi agli occhi. Finisce che mi fermo davanti  a La pendola dall’ala blu, e il taccuino si riapre. Sulla didascalia c’è scritto 1949. Si vede un paesaggio: una città innevata e notturna. Nell’intorno vivono figure: in alto una gallina; in basso, una donna e un mazzo di fiori perlopiù rossi. Ed ecco la pendola: gigantesca, un treno che scandisce il tempo. Sono le venti sul quadrante e dal quadrante scende giallo giallo il braccio oscillante, che finisce disegnando un cerchio. A sinistra i due amanti e a destra, un po’ dentro e molto fuori il mobile che contiene la pendola, un’ala blu, segno che il tutto presto volerà. Per andare dove? Nel frattempo la neve continua a cadere silenziosa e indisturbata.

Il tempo vola via, un gruppo di studenti si è seduto a terra disegnando un cerchio attorno all’insegnante, la quale spiega e racconta. Le domande non si fanno aspettare. Ma la sala è così piena che è necessario andare avanti. Così avanti, che quasi senza soluzione di continuità appaiono le opere di Van Gogh, esposte nell’altra ala di Palazzo Reale.

In questo caso, la mostra ha dimensioni più ridotte. E scegliere un solo quadro si rivela un’operazione più semplice. È una natura morta. Van Gogh ne dipinse molte. Questa però è un po’ particolare. E lo è soprattutto per quel cappello che occupa la parte centrale del quadro.

Van Gogh natura morta con cappelloQuel cappello c’informa che un uomo è nei dintorni e il suo respiro s’insinua tra la bottiglia, il bricco e la piccola casseruola. In quel cappello usa ripararsi la testa il pittore; un pittore che sta imparando il mestiere; è per questo che preferisce esercitarsi con oggetti fermi che gli consentano di sgranchirsi dita e immaginazione. Ma il fatto di mettere al centro del suo quadro un cappello, che è il suo cappello, fa intendere molte cose.

Vorrei elencarne almeno tre, ma il taccuino si chiude. Il tempo vola via e mi chiama fuori dalla mostra. Riattraverso piazza del Duomo, taglio per la Galleria. La Scala si fa avanti; guardo l’aggiunta realizzata da Mario Botta, il tram numero uno s’infila in via Manzoni, carico di anni, con le sue panche di legno che corrono lungo tutto l’abitacolo.

Vado verso Brera, le immagini di Van Gogh si sovrappongono alle vetrine dei negozi e dei bar. Lo immagino mentre scrive al fratello Leo, o mentre si perde in un prato al limitare di un bosco. Nei dintorni c’è il manicomio nel quale qualcuno dovrebbe curarlo. Ma curarlo di cosa? Bisognerebbe forse estirpargli la testa che ha abitato il suo cappello dipinto? E quei gesti nervosi, tutte quelle tracce del movimento delle mani lasciate sulle tele, una sorta di action painting in anticipo, come fare a fermarli. Ci penserà lui. In quel campo farà tutto da solo.

A Brera c’è la mostra dedicata al Bramante. Da vedere, certo. Ma non oggi. Sulla retina oggi non c’è più spazio per altre immagini dipinte.

* * *

Alberto Giacometti La gabbia2. Le braccia sono aperte. Forse stanno aprendo la finestra della monade in cui è incarcerata. O forse, al contrario, stanno chiudendola. Sì, le monadi non hanno finestre e d’altronde la gabbia è più mentale che reale, visto che le quattro pareti non esistono. Ci sono solo linee che salgono a formare un rettangolo. È in questo rettangolo che si respira o si affoga nel mare angoscioso di se stessi. Dietro la donna svettante c’è una figura molto più bassa. E’ una testa, sembra essere raffigurata di profilo. Quindi non guarda la donna. Non le dà proprio le spalle, ma quasi.

È forse un uomo, tutto testa, rimuginatore immobile di dubbi.

È forse Amleto.

La faccia della donna fa pensare a ET. Più che una donna, quel che vediamo è piuttosto un alieno/a? La gabbia ha uno spazio sottostante: vuoto, così vuoto da inghiottire tutta la malinconia che sta intorno. E anche la nostra. Sopra la gabbia c’è un lampadario scintillante, ma certo non fa parte dell’opera. È solo un dettaglio arredativo della Galleria d’arte moderna  di Milano, dove la gabbia è esposta insieme ad altre opere di Alberto Giacometti.

Fuori c’è ancora il sole. Non quello di ieri; è il sole di una nuova giornata milanese passata a collezionare dettagli  immaginativi.

Dalla gabbia chagalliana del 1925 di ieri siamo passati a quella del 1949-50 di Giacometti. A differenza della mostra di Villa Borghese di Roma, dove le sue sculture era chiamate a dialogare con le opere che hanno attraversato la storia dell’arte e si sono fermate in quel luogo di meravigliosa accoglienza degli occhi, qui c’è solo lui con la sua materia filiforme e torturata.

Che impressione vedere da vicino il lavorìo quasi violento delle mani modellanti! Sia che si elevino a formare figure altissime con i piedi enormi ben poggiati sul basso dell’impiantito; sia che cerchino la luce di uno sguardo nella materia arruffata di un busto. A volte le metteva nella posizione dell’andare, le sue figure, a voler sottolineare che si trattava di camminatori dentro il pensiero rimuginatore e scorato dell’artista.

Guardo da lontano la gabbia. Si riesce a scorgerla nella prospettiva ritmata delle sale. Qui regnano il silenzio e la solitudine. Le grandi folle si fermano a Palazzo Reale, non giungono sin qui. E forse è giusto così, e se non altro permette di guardare con attenzione il modo tutto proprio di apparire delle sculture giacomettiane.

Io ti guardo. Tu guardi altrove. Guarda altrove ogni parte di te: il pizzetto a punta, i riccioli biondi, quasi rossastri.

A lato lo scorcio si apre all’aria trasparente del fuori: è una finestra di luce che permette  al tuo corpo di essere illuminato e di mettere in rilievo la giovinezza turgida delle tue carni.

Sul davanzale, sempre al tuo lato, è poggiata una grande pisside bianca. Dentro ci sarà l’eucarestia.

Tu guardi altrove con la testa un po’ inclinata di lato.

Il cappio dal collo scende dietro la spalla destra a tenerti legato alla colonna.

Tu guardi lontano. Lontano da Brera e da Milano dove oggi sei esposto in un posto diverso dal tuo solito.

Guardi  a una geografia che non esiste e che risiede solo nei tuoi occhi.

Il tuo lato in ombra implora i sogni, mentre le lacrime ti scendono luccicanti sul viso.

E scendono anche in quello di chi ti guarda, tu così stupefacentemente dipinto dal Bramante.

Era il 1489-90. Più di cinque secoli fa. Fuori ci si prepara al tramonto. Esco da Brera e m’incamino. Ho gli occhi sazi.

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