Giuliano De Risi
Ai Musei Capitolini di Roma

La crisi, 1800 anni fa

Una grande, bella mostra ripercorre «L'età dell'angoscia» nell'Impero Romano del III Secolo. Una stagione difficile, così lontana eppure così vicina alla nostra contemporaneità

Angoscia: in campo psicologico il termine designa uno stato doloroso di ansietà. Nella tradizione filosofica, la parola assunse un significato definito con Soren Kierkegaard che descrisse lo stato di smarrimento che l’uomo prova quando è posto di fronte all’incertezza e all’ndeterminatezza della sua esistenza. A differenza della paura, indispensabile meccanismo di difesa che scatta in presenza di un determinato pericolo, l’angoscia non si riferisce a nulla di preciso e di determinato ma, secondo il filosofo danese, designa quello stato emotivo dell’esistenza umana che non è una realtà, ma una possibilità, nel senso che l’uomo diventa ciò che è in base alle scelte che compie e alle possibilità che realizza. W.H. Auden, poeta anglo-americano dalla vita travagliata, che si appassionò alle teorie kirkegaardiane, nel ‘47 aveva pubblicato The Age of Anxiety, poema capace di mettere in luce il vuoto dell’esistenza nel periodo della seconda mondiale, caratterizzato dalla conversione o ritorno al Cristianesimo e dalla volontà di aderire a un credo religioso, da un «salto nella fede». Più recentemente, nel 1965, Eric Dodds, che di Auden era stato amico, aveva tracciato un importante affresco della crisi che attanagliò l’Impero romano nel terzo secolo dopo Cristo dal titolo Pagani e cristiani in un’epoca di angoscia.

È stata quella angoscia, che da Kirkegaard arriva fino a Dodds, a fornire l’ispirazione per il titolo di una bellissima mostra a cura di Eugenio La Rocca, Claudio Parisi Presicce e Annalisa Lo Monaco L’Età dell’Angoscia. Da Commodo a Diocleziano (180-305 d.C.), che si è aperta in questi giorni ai Musei Capitolini di Roma e vi rimarrà all’ottobre 2015, importante appuntamento del ciclo “I Giorni di Roma”, progetto quinquennale che alterna esposizioni a carattere prettamente monografico (Ritratti. Le tante facce del potere, Costruire un Impero), a mostre dal taglio diacronico (L’Età della Conquista, L’Età dell’Equilibrio, L’Età dell’Angoscia), dall’epoca repubblicana fino all’epoca tardo-antica.

l'età dell'angosciaCiò che colpisce il visitatore di questa mostra è la sua incredibile attualità. La mostra – spiegano gli organizzatori – racconta la diffusa crisi spirituale e religiosa che in un clima di ansia generalizzata portò a un abbandono delle religioni tradizionali e all’adesione sempre più massiccia al culto di divinità provenienti dall’Oriente: Iside, Cibele, Mithra, Sabazio. Oltre a loro, naturalmente, Cristo. L’ansia derivava da alcuni problemi concreti e materiali: guerre civili, crisi finanziarie ed economiche, carestie, epidemie (come quelle nel corso dei principati di Marco Aurelio e Gallieno) e la perenne pressione dei barbari ai confini. Ad astrologi, indovini e oracoli gli uomini e le donne del tempo ripetevano frequentemente le stesse domande: «mi ridurrò a mendicare?», «avrò il mio salario?», «sarò venduto schiavo?».

In breve la speranza di un futuro più sicuro era talmente diffusa e pressante da alimentare in chiunque quella che gli storici dell’antichità chiamano un’aspettativa di salvezza, legata in primo luogo alla figura dell’imperatore, in teoria garante della giustizia, della sicurezza militare dell’Impero e anche suprema autorità religiosa. Il collasso dei sistemi di riferimento sociali ed economici hanno sempre avuto come effetto principale quello di compromettere la quotidianità della vita delle persone, che in modo progressivo e rapido, si trovano ad affrontare l’angoscia del reale.

Difficile non fare parallelismi che richiamano alle condizioni del presente e alle sue incertezze. Agli alti tassi di disoccupazione che affliggono il mondo del lavoro, al malessere delle giovani generazioni che, con o senza diploma, con o senza laurea non riescono a inserirsi nel mondo produttivo, alle migliaia di piccole aziende costrette a chiudere i battenti impossibilitate a reggere il passo con i costi crescenti e un mercato in costrizione, a quella «società stremata da sei anni di crisi e che ormai si aspetta solo il peggio», come certifica l’ultima analisi del Censis, i cui le famiglie si barricano dietro un risparmio che cresce nonostante il crollo dei redditi, ma che non si traduce né in consumi né in investimenti, un vero e proprio «cash di tutela». Un problema certamente non solo italiano. È di questi giorni la pubblicazione di uno studio raggelante della prestigiosa rivista scientifica americana Lancet che riguarda i suicidi dovuti alla perdita del lavoro. La ricerca è stata effettuata in collaborazione con il sociologo svizzero Carl Nordt, del Dipartimento di Psichiatria dell’Università di Zurigo, e parla di 45 mila morti all’anno, un quinto del totale di quanti si sono tolti la vita, in 63 Paesi, tra il 2000 e il 2011. Magra consolazione per il nostro paese è che da noi la percentuale di 1,7 casi per 100.000 si è mantenuta bassa rispetto ad altri Paesi, alla Lituania per esempio dove è dieci volte più alta.

Il valore di questa mostra che ha coinvolto prestigiosi musei internazionali come il Metropolitan Museum of Art di New York, il Landesmuseum e il Zentralmuseum di Magonza, il Landesmuseum di Treviri,la Glypthoteke il Museo dell’Università di Monaco di Baviera, il Louvre di Parigi e il Museo Archeologico Nazionale, il Museo dell’Acropoli di Atene, il Museo Archeologico di Dion e il Museo Archeologico di Astros e importanti collezioni private, al di la del suo indubitabile aspetto di testimonianza artistica della stagione storica analizzata, sta soprattutto nella sua funzione di riflessione sugli effetti del collasso dei sistemi di riferimento sociali ed economici, che hanno finito per compromettere la quotidianità della vita delle persone, che in modo progressivo e rapido, si trovano ad affrontare l’angoscia del reale. Nella recente storia mondiale due eventi hanno avuto per la prima volta la capacità di modificare e accomunare gli esseri umani su scala globale: il primo conflitto mondiale e il crollo di Wall Street del ’29 anche detta «la grande depressione». In entrambi i casi, per la prima volta l’uomo è stato testimone di fenomeni i cui effetti non erano più esclusivamente legati ai propri confini Nazionali, ma avevano la capacità di compromettere e modificare geografie economiche e sociali su scala mondiale. La percezione che gli sconvolgimenti economici, finanziari e sociali avessero risonanze globali amplificò incredibilmente l’angoscia, compromettendo e modificando il sentire collettivo. Non ultime, le crisi dei bond Argentini del 2001/2002 e dei mutui subprime negli Stati Uniti nel 2006, propagatesi poi in tutto il mondo dell’economia e della finanza, hanno determinato fenomeni imprevedibili in cui piazze, strade e palazzi dello Stato divengono luoghi in cui i popoli si barricano per esorcizzare, arginare e combattere l’angoscia del fallimento di sistemi culturali inadeguati. La presenza della parola crisi diventa permanente.

Busto di CommodoLa mostra L’età dell’Angoscia approfondisce dunque la conoscenza dei grandi cambiamenti che segnarono l’età compresa tra i regni di Commodo (180 – 192 d.C.) e Diocleziano (284 – 305 d.C.): fase definita già dagli storici del tempo come «il passaggio dall’Impero d’oro (quello di Marco Aurelio) a uno di ferro arrugginito». In poco meno di centocinquanta anni infatti l’Impero cambiò la propria fisionomia, arrivando all’instaurazione della Tetrarchia e alla perdita del ruolo di capitale della città di Roma. In questo lasso di tempo le cronache evidenziano alcuni elementi che ancora una volta richiamano, seppur con le dovute differenze, la nostra attualità, quali: l’aumento delle pressione di popoli sui confini dell’impero, le spinte secessioniste (si pensi all’Impero delle Gallie e al Regno di Palmira), i disordini interni (che comportarono riforme strutturali della tradizionale unità militare romana, la legione), la crisi del tradizionale sistema economico, l’inflazione e la conseguente necessità di aggiornare continuamente la moneta, e soprattutto, la grave instabilità politica. Determinante fu la fine della trasmissione del potere su base esclusivamente dinastica e il conseguente potere che andò a concentrarsi nelle mani dell’esercito, capace di imporre gli imperatori e di eliminarli. È un mondo che muta definitivamente la propria struttura sociale, con lo sfaldamento delle istituzioni e il parallelo emergere di nuove forze sociali. Le graduali tappe di queste trasformazioni si riflettono sui modelli figurativi e del linguaggio formale della scultura, che si carica di un nuovo e forte accento patetico.

Duecento opere, imponenti statue in marmo e bronzo, a grandezza naturale, in alcuni casi di misura colossale, busti e ritratti, rilievi in marmo, sarcofagi e urne, mosaici pavimentali e decorazioni pittoriche parietali, e ancora preziosi argenti da mensa, elementi architettonici figurati e altari permettono di apprezzare da vicino il gusto di un’intera epoca, di riflettere sui cambiamenti formali e sui temi figurativi presentati da oggetti che decoravano gli spazi urbani e quelli privati (case e tombe). La prima sezione, I protagonisti, con circa 92 opere, è una ricca presentazione di ritratti, statue e busti degli imperatori regnanti e delle loro mogli, e anche dei cittadini più abbienti dell’epoca; la seconda sezione L’esercito presenta, con oltre 20 opere, l’esercito come uno dei grandi protagonisti della nuova epoca, capace di un enorme potere, perfino di imporre o eliminare imperatori a lui sgraditi; la terza sezione dedicata a La città di Roma, con 14 opere, racconta i grandi cambiamenti che nel III secolo segnano profondamente la città di Roma nella sua identità, dalla costruzione del circuito murario che prenderà il nome di “Mura Aureliane” (e che tuttora segna il paesaggio urbano della città), alla presenza di grandi caserme militari, alla realizzazione di una pianta marmorea della città su grande scala (cosiddetta Forma Urbis Severiana); la quarta sezione La religione, attraverso 52 opere, ci riporta un fenomeno di grande portata ovvero l’arrivo in città di culti orientali, e che si andranno ad affiancare piano piano ai culti tradizionali celebrati fino a quel momento: Iuppiter Dolichenus, Mitra, Helios-Sol, Sabazio, Cibele/Attis, Iside saranno capaci di attrarre una gran massa di fedeli, e di rispondere ad alcune delle esigenze che porteranno in breve all’affermazione straordinaria del Cristianesimo; la quinta sezione Le ricche dimore private e i loro arredi, con circa 30 opere, offre uno sguardo sugli spazi privati, sui gusti e gli arredi domestici di alcune delle più ricche dimore private dell’epoca; la sesta sezione Vivere (e morire) nell’Impero, circa 7 opere, racconta i cittadini romani al di fuori della Capitale: i loro gusti, le loro attività quotidiane, le loro immagini funerarie; la settima sezione I costumi funerari composta di 24 opere: sarcofagi, rilievi e pitture con una ricca presentazione di temi e soggetti, tratti dai repertori dei miti tradizionali e innovati secondo linguaggi e gusti ormai del tutto differenti.

l'età dell'angoscia3Sintomatico di questo mal di vivere, di questa angoscia del quotidiano è una lettera che nel 251 d.c., il vescovo di Cartagine Cipriano scrive a Demetriano, nemico dei cristiani, da lui accusati di essere responsabili delle guerre, delle pestilenze, delle carestie e di ogni sorta di avversità. «Dalle montagne escavate ed esplorate – scrive Cipriano – non si estrae più con la stessa abbondanza la lastra marmorea; le miniere ormai sono esauste, offrono minor ricchezza d’argento e d’oro e i loro filoni vanno man mano scomparendo […] scompare l’integrità nel foro, la giustizia nei giudizi, la concordia tra gli amici, l’abilità nelle arti, la disciplina nei costumi […]. necessariamente declina ogni cosa che, avvicinandosi ormai alla sua fine, vien meno e precipita». E nella tarda repubblica si assiste a una lotta senza quartiere tra comandanti di eserciti che erano anche influenti magistrati, e le loro fazioni. Secondo l’opinione pubblica corrente, Roma sembrava destinata a crollare miseramente sotto il peso di tante scelleratezze. Si vagheggiava la rovina di Roma, il crollo di città fiorenti e ricche d’oro e d’argento, ma si faceva strada anche la speranza per l’avvio di una nuova età dell’oro, e la nascita di un uomo (un uomo simile a un dio, quasi certamente Ottaviano) che avesse la capacità di riportare ordine e pace sulla terra.

Ma a questa visione nichilista non si associa Eugenio La Rocca uno dei tre curatori della mostra che nel suo saggio L’età dell’Angoscia, forse dell’ambizione pubblicato nel ricco catalogo osserva: «A volte si dimentica che, malgrado tutte le difficoltà, l’Impero seppe resistere bene alle trasformazioni in atto, sia in età tardo-repubblicana sia nel III secolo d.C.; l’esercito si dimostrò uno strumento efficace contro i nemici, contro le troppo frequenti pressioni barbariche lungo i confini, perfino contro, o a favore dei suoi generali, la cui ambizione era quella di ascendere al soglio imperiale, anche a costo della propria vita, come del resto normalmente avvenne (cfr. il saggio di Alexandra Busch sull’esercito a Roma). Non è casuale che Peter Brown abbia considerato il III secolo d.C. più un’età dell’ambizione che non un’età dell’angoscia, all’unisono con quella “manifestazione di volontà di potenza” di cui aveva già parlato Ranuccio Bianchi Bandinelli. Non si è forse tenuto nel dovuto conto chela maggior parte degli imperatori del III secolo d.C., provenienti dai ranghi militari, erano eccellenti comandanti, capaci di far fronte ai pericoli di invasioni. D’altronde, l’Impero ebbe ancora una lunga vita, ben superiore a quanto potesse far presupporre, secondo la lettura tradizionale, un’età dominata dall’angoscia. È vero che la ricchezza si concentrò in poche mani, e che fu ostentata in forme differenti rispetto al II secolo d.C.: in primo luogo con una magnificenza dell’edilizia privata, che gli scavi degli ultimi decenni documentano in modo sempre più preciso (cfr. il saggio di Laura Buccino sull’edilizia privata, specialmente a Roma), con un lusso dei monumenti funerari (basti pensare al sarcofago Ludovisi; cfr. il saggio di Stefano Tortorella sui costumi funerari prevalentemente a Roma), e con uno sfarzo di vita fino allora impensabile. Ma tutto sommato il sistema tenne, e la vita nei principali centri urbani si adeguò rapidamente alle nuove situazioni. Quel che effettivamente avvenne fu un mutamento radicale ma non repentino, nei rapporti dello stato e dei sudditi con la religione tradizionale, e nelle forme di autorappresentazione imperiale».

Sostituiamo la parola religione con politica o istituzioni e, volendo, si potrà uscire da questa mostra con un pensiero cautamente positivo sui tempi che ci aspettano…

Facebooktwitterlinkedin