Danilo Maestosi
Alla Galleria Studio S di Roma

Ritratto d’un critico

Una bella mostra rende omaggio a Domenico Guzzi, un critico che ha accompagnato mezzo secolo di arte romana, da Carrà e De Chirico fino a Mulas e Calabria

Fa vibrare le corde della commozione la mostra che la Galleria Studio S di via della Penna a Roma tiene in cartellone fino a tutto gennaio. E fa già quasi evento, perché è raro che l’arte di oggi, così avvitata su se stessa, così irrazionalmente razionale, anteponga il pathos al logos, la rivisitazione del passato al vuoto di storia ed esperienze vissute delle passerelle più trendy. Commovente è l’idea di ancorare questo appuntamento all’omaggio di un critico d’arte, Domenico Guzzi, scomparso 5 anni fa, che ha esplorato come pochi il tessuto dell’arte qui a Roma, riallacciando i fili di una continuità di ricerca espressiva che mode e mercato avevano spezzato e rivisitando l’opera di autori, oggi relegati ai margini, che muovendosi nel solco delle tecniche tradizionali comunque hanno fatto scuola. Commovente l’intenzione di Carmine Siniscalco, un gallerista ultraottantenne che ha attraversato da protagonista la stagione del secondo Novecento nella capitale, di srotolare un filo di memoria e testimonianza imbastito dallo stesso Guzzi in un libricino di appunti e ricordi pubblicato postumo dalla moglie Tiziana Casatelli, che dà titolo e cornice alla mostra: Mi sono messo nei panni di Carrà. Evocando un episodio primi anni Sessanta in cui Guzzi, che allora aveva appena 8 anni, fu portato dal padre Virgilio, grande firma della scuola romana, a visitare la villa in Versilia di Carlo Carrà: pioveva a dirotto, il bimbo giunse zuppo alla meta e Carrà per evitargli un malanno gli prestò qualcosa con cui rivestirsi e poi sigillò l’incontro regalandogli un suo disegno. Un paesaggio che Siniscalco ha recuperato e ora espone in bella vista, accanto a una veduta ad olio del padre Virgilio e a una natura morta carica di echi cubisti della madre Giuliana Bergami, anch’essa valente pittrice. Tre momenti di iniziazione al mistero e ai riti della pittura alla quale il copione della mostra ne aggiunge, attraverso un quadro di quegli stessi anni, un quarto, chiamando in scena la figura chiave di Giorgio De Chirico, inarrivabile e scontroso maestro al quale Domenico Guzzi ha dedicato le pagine più stimolanti della sua avventura di critico d’arte, nutrite dalla sua speciale attenzione per l’evoluzione dell’arte di figura.

Completano questa singolare passarella le opere di dieci pittori, ai quali, come in una foto di gruppo, Guzzi dedica nel suo saggio brevi ma intensi ritratti. Un posto d’onore per Renzo Vespignani, di cui la mostra documenta il trapasso dal realismo degli scorci di periferia, che ne hanno sigillato il successo, ad una figurazione più intrisa di citazioni classiche e derive allegoriche. Poi a fianco le tele di altri protagonisti della scena romana, che nella colpevole disattenzione dei più, hanno continuato e continuano a sperimentare e a tener vivo il sacro fuoco della pittura. E la sua capacità di misurarsi col proprio tempo. Registrando la inesorabile frantumazione della geografie e delle idee come fa Franco Mulas. Suggerendo stuzzicanti travasi tra le visioni oniriche del surrealismo e gli stereotipi del fumetto come fa Sergio Ceccotti. Rileggendo profeticamente il crollo delle ideologie e della rappresentanza politica come fa Ennio Calabria in una cupa metafora sul parlamento italiano. Specchiandosi nel silenzio dell’Orizzonte marino come Giovanni Soccol, nella solitudine inquietante e futuribile del cosmo come Sinisca, nel fascino beffardo di un girotondo di farfalle come Edolo Masci, nella torsione innaturale e straziante dei corpi come lo scultore Vincenzo Gaetaniello. O cercando risposte e forme in un anacronistico ritorno alla tradizione del manierismo, come Bruno d’Arcevia, autore di un curioso ritratto da gentiluomo seicentesco di Domenico Guzzi, che apre e chiude il percorso.

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