Lidia Lombardi
In occasione del Premio Nonino

La parola ci salverà

«La poesia sgorga da profondità inconsce e non da fatti contingenti: è sempre un gesto del tutto imprevisto e imprevedibile». Intervista al grande poeta Yves Bonnefoy che parla di versi, di impegno e di Charlie Hebdo

«Varcare la morte per vivere». È un verso di Yves Bonnefoy, il massimo poeta francese vivente, 92 anni portati con levità ed eleganza, uno sguardo pensoso e insieme sereno nel viso incorniciato dai capelli bianchi, un corpo che non tradisce l’età. Bonnefoy, pubblicato in Italia da svariati editori (Mondadori ha mandato in libreria nel 2013 L’ora presente e tre anni prima gli aveva dedicato il Meridiano) inanella oggi un altro riconoscimento, il Premio Internazionale Nonino che gli è stato consegnato, nella cornice festosa delle Distillerie Nonino di Percoto (Udine) da Adonis, il poeta siriano che fa parte della giuria, presieduta dal Nobel Naipaul, e che ha destinato gli altri riconoscimenti 2015 alla regista teatrale Ariane Mnouchine, al musicista napoletano Roberto De Simone e alla filosofa statunitense Martha Nussbaum. Bonnefoy ha parlato con Succedeoggi non solo di letteratura e del suo fare poesia, ma, inevitabilmente,  dell’«orrore assoluto», così lo ha definito, degli attentati islamisti a Parigi, la città nella quale vive con la moglie sposata da quasi mezzo secolo.

Bonnefoy,  che cosa ha voluto dire con quel «varcare la morte per vivere»?

Non bastano poche parole per esprimerlo, ma semplificando significa che il nostro rapporto con gli altri e con le cose diventa intenso nell’assoluto dell’attimo, in ciò che non si vedrà due volte. La morte sprigiona l’importanza dell’istante presente. È il riconoscimento che essa c’è, in mezzo alle nostre vite. Ed è perfino feconda.

Ma che cosa significa oggi per lei essere poeta?

Non dò un altro significato rispetto a quando ho cominciato a scriverne, di versi. La poesia secondo me deve essere fatta per durare, ed è necessaria per dare unità ad elementi disparati, a fatti incoerenti, a situazioni difficili, anzi tragiche, quali sono quelle che viviamo oggi.

Lei abita a Montmartre, il cuore più suggestivo di Parigi. Come ha vissuto l’attacco islamista al settimanale satirico Charlie Hebdo e al supermercato kosher?

Ho provato un orrore assoluto di fronte a una violenza che cancella ogni forma di comunicazione. Anche se poi ho riflettuto che dietro questi fatti ignobili si cela una forma estrema di comunicazione. Però c’è anche da dire che se il dialogo, l’ascolto dell’altro, è l’unico modo per frenare la violenza, e a questo io credo fermamente, le vignette che semplificano il volto dell’avversario e non gli danno la possibilità di esprimersi sono sbagliate. Io non le amo. Tuttavia bisogna anche affermare che non si può far valere uno scambio sotto il rumore delle armi.

Crede che i francesi abbiano paura, che cambieranno le loro abitudini?

Difficile pronosticare. Il grande corteo di protesta di Parigi e non soltanto in seguito agli attentati è un sogno che nasconde divisioni pronte a riapparire subito dopo. Accade per l’incertezza del futuro, che attanaglia tutto il mondo. Certo, non voglio pensare che l’islamismo sia una minaccia reale per la pace mondiale. Tutte le grandi forme di religione si basano su principi di buona volontà e accettano lo scambio culturale. Non vedo perché una realtà così profonda non possa esprimersi anche oggi. Il mio non è ottimismo puro e semplice, è chiaro che agiscono forze cieche e l’esito dello scontro è dubbio. Ma dobbiamo imporci questo ottimismo, è la volontà di essere ottimisti che deve prevalere.

Lei come lavora in questo senso?

Diciamo che non scrivo versi su quanto accaduto, perché la poesia sgorga da profondità inconsce e non da fatti contingenti. È insomma sempre un gesto del tutto imprevisto e imprevedibile. Però ho affidato la mia reazione critica a interviste e sollecito l’intervento di intellettuali per dissipare i malintesi e stabilire il clima di fiducia nelle parole dell’altro. Un’utopia? Ma l’utopia è indispensabile oggi più che mai. C’era una testata francese che si chiamava «O socialismo o barbarie». Parafrasando affermo: o dialogo o barbarie. Guai tornare a evocare le crociate. La parola ci salverà, non vedo altre possibilità di uscire dal tunnel.

Quale parola?

Non sono credente ma ho fiducia nel logos, nel principio che cerca di farsi strada tra le menzogne, le illusioni, le finzioni, spesso anche di natura linguistica. Certo è una lotta ardua, ma, ripeto, è l’unica che oggi mi pare possibile.

Che ne pensa di papa Francesco e di Françoise Hollande?

Il pontefice è simpatico. Quanto al presidente francese, è un uomo di buona volontà. Ma ha una statura forse non proporzionata ai bisogni dell’età contemporanea. Però non è colpa sua.

Se la parola ci salverà, la poesia vive tuttavia di una contraddizione. Da una parte crescono i dilettanti che scrivono versi, dall’altra l’industria culturale emargina i poeti.

È vero. La colpa è del logorio ai fianchi della poesia attuato dalla società che mette il commercio degli oggetti materiali al primo posto e spinge l’individuo a soddisfare bisogni che non avrebbe. Il consumismo è il principale nemico dei versi insieme con il predominio della formazione tecnologica. Per fortuna il Nonino, che oggi ho l’onore di ricevere, va anche a scienziati. In questo modo il Premio aiuta la poesia a uscire dal proprio ambito, a confrontarsi con altro tipo di intellettuali. Sa, io affermo il ruolo fondamentale del verbo poetico, ovvero la capacità di ogni individuo di stabilire un rapporto di tipo poetico con gli altri, con il mondo, con il diverso da sé.

Lei ha per un periodo aderito al surrealismo, poi se ne è allontanato. Perché?

Avevo molto amato il surrealismo per la sua capacità di scavare nell’inconscio, ancora oggi apprezzo Breton. Ma credo che la poesia debba essere composta per dare vigore alla vita, per cambiarla. Il surrealismo mi è sembrato alla fine troppo infarcito di sogni superficiali.

E allora quali sono i poeti che ama di più e che cosa pensa della poesia italiana contemporanea?

Nel mio olimpo metto Shakespeare, Baudelaire e Leopardi, che ho tradotto. Quanto agli italiani, non voglio fare nomi ma ritengo che la poesia italiana oggi dimostri una grande varietà di approcci, di ricerche, di vivacità. Mi sento più a mio agio parlando della vostra poesia rispetto a quella francese, troppo dominata da intellettualismi.

Più volte il suo nome è stato evocato per il Premio Nobel. Che ne pensa?

Sono cose che si sentono dire ma che non incidono nelle mie occupazioni quotidiane, nella produzione poetica e nella mia vita familiare che scorre come tutti i giorni.  A cambiarmi sono piuttosto le preoccupazioni, le persone che richiedono la mia assistenza. Sa, per molti anni mi sono dedicato alla mia vena poetica in qualunque posto e in qualsiasi ora. Adesso mi limito a scrivere nelle prime ore del giorno, all’alba, per potermi poi restituire ai miei.

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