Nicola Fano
Da vedere a Roma

Arlecchino non è Charlie

Al Teatro della Cometa torna in scena “Uscita di emergenza” di Manlio Santanelli con Vittorio Viviani: un'occasione preziosa per capire come sono cambiate comicità e tragedia dopo la carneficina di Parigi

Uscita di emergenza di Manlio Santanelli rappresenta un po’ un discrimine nella drammaturgia europea del Novecento: è la coniugazione tra il pessimismo visibile e neorealista di Eduardo e quello irrazionale e metaforico di Samuel Beckett. La storia la sapete: Cirillo e Pacebbene, due napoletani intimoriti dalla vita per diverse ragioni, si rifugiano nella Pozzuoli che s’inabissa sotto i colpi del bradisismo. Vivono soli, di espedienti, paure e precarietà senza mai riuscire a dare libero sfogo alle proprie ossessioni. Non sono Luca Cupiello né Vladimiro e Estragone: sono uomini in carne e ossa eppure sono eccessivi; figli di una verosimiglianza obliqua. Aspirano alla pastiera ma si infiammano per la sorte di un pesce rosso da imbalsamare.

Andate a vedere l’allestimento di Uscita di emergenza firmato da Enrico Maria Lamanna con Vittorio Viviani e Gino Ariuso in scena al Teatro della Cometa di Roma: è una buona occasione per riflettere su dove siamo. Su come siamo cambiati.

Il testo di Manlio Santanelli è del 1981 (ebbe un successo clamoroso, giustamente, all’epoca) e tante e tante volte è stato riallestito in questi trentacinque anni: per quanto mi riguarda, ho visto tutte le edizioni che si sono susseguite, dalla prima (in origine c’era Bruno Cirino, che morì poco dopo e fu sostituito da Sergio Fantoni, io vidi lui), e in ogni occasione ho potuto verificare con mano la tenuta del testo, la sua solidità di classico. Classico dell’anti-classicità: come Aspettando Godot, per intenderci. O prima ancora come Ubu re: paradossi irreali fortemente metaforici. Teatro allo stato puro. Ma stavolta Uscita di emergenza pone allo spettatore il peso di una domanda: quante cose sono cambiate intorno a noi nel volgere di un quindicennio (dal 2001 a oggi)? Quanto e come è cambiata la nostra precarietà? Manlio Santanelli inscenava una condizione perpetua: la paura di chiamare con il proprio nome le nostre paure. La sua era una variazione (modernissima e teatralissima) delle teorie freudiane sulla necessità di riconoscere le proprie emozioni. Ma oggi? Oggi non sono cambiate le nostre paure? Non è cambiato tutto dall’11 settembre 2001 al 7 gennaio 2015?

Manlio SantanelliEnrico Maria Lamanna, rispettando il dettato sostanziale di Manlio Santanelli, chiude lo spettacolo con un abbraccio dolente e impaurito: i due personaggi, che pure nelle due ore di spettacolo si sono combattute e si sono scambiati insulti e aggressioni vere e proprie, alla fine trovano comunque uno spiraglio di solidarietà. S’era nel 1981: normale che i scontri avessero uno sbocco costruttivo. Non solo. Come dice Aristotele, nella commedia (a differenza della tragedia dove i conflitti non si risolvono altro che nel sangue) alla fine Oreste e Egisto se ne vanno via a braccetto. Esattamente come – aristotelicamente – aveva previsto Manlio Santanelli (nella foto qui sopra) per Cirillo e Pacebbene. E del resto, il Novecento è stato il secolo in cui la comicità ha assolto il ruolo catartico che fin lì era stato della tragedia: Arlecchino si è sostituito ad Amleto e ha assorbito i colpi della società con una risata. Ma adesso?

Andate assolutamente a vedere questo spettacolo. Non solo per godere di un Vittorio Viviani al suo meglio (è la prima volta che Cirillo prende un tono terragno, realistico, perfetto e dolente), ma anche per capire come stanno cambiando le cose. Per capire come, dopo la carneficina perpetrata a Parigi nel nome di un non meglio identificato dio dell’odio, le cose sono cambiate in modo definitivo. Irreparabile. Arlecchino è morto. Nulla di quel che ci emozionava prima potrà più emozionarci: non sarà l’abbraccio tra Egisto e Oreste a farsi carico della nostra precarietà, dello smarrimento di una società che – nel benessere diffuso – ha perso senso. No, non è il vuoto di senso il tema del ventunesimo secolo. È l’odio il tema di oggi. Oggi Oreste tornerebbe a uccidere Egisto; oggi Cirillo e Pacebbene non possono più abbracciarsi. Le loro paure e le loro ignoranze devono sfociare nell’odio: la metafora corrente prevede che uno debba ammazzare l’altro. Senza neanche sapere bene perché. Salvo qualche slogan, qualche luogo comune. Inseguendo non so quante vergini in paradiso.

Il mondo è cambiato: questo spettacolo (forse simbolico a sua insaputa) ce lo dice con terribile chiarezza. I suoi difetti si rispecchiano nel nostro essere rimasti indietro rispetto al post-postmodernismo di chi ci odia e ci viene ad ammazzare nelle nostre case. Merito di un grande autore come Manlio Santanelli (che per rovescio si conferma un classico), merito di uno strepitoso attorte (Viviani) che allude all’inutilità dell’ironia in un tempo fatto di sangue, e merito di un allestimento “vecchio stile” che mette in scena l’ansia di non capire che cosa ci sta succedendo. Che invece è così chiaro…

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