Anna Camaiti Hostert
The Americans: Marialina Marcucci

Il dubbio di Marialina

Imprenditrice attenta ai nuovi linguaggi, la Marcucci ha un'opinione molto particolare sul rapporto politica/comunicazione: «Le ideologie? Esistono ancora. Ma sono un guscio vuoto che serve solo a colpire gli avversari»

Continua il nostro ciclo The americans. Di turno questa volta un’imprenditrice storica e originale, Marialina Marcucci, che non ama parlare di sé, delle molte cose che ha fatto e delle tante innovazioni che ha introdotto nel campo della comunicazione. Che preferisce una chiacchierata all’intervista classica, perché «questo dovrebbe essere uno scambio di idee più che riguardare l’unicità del mio modo di vedere le cose». Preferisce essere raccontata perché «per me è importante capire come vieni percepito». E che in particolare tiene a precisare la relatività e la singolarità del suo punto di vista. Una cosa alquanto rara nel mondo imprenditoriale italiano dove in genere i capitani d’industria (in genere uomini) reclamano invece la giustezza delle proprie idee, presentandole come le uniche adatte a risolvere i numerosi problemi del paese. Quando peraltro in molti casi servono solo a risolvere i loro problemi personali. Gli esempi non mancano certamente, ahimè!

Marialina Marcucci dice di essere stata molto influenzata dalla sua storia familiare, una storia fortunata di emigrazione che «mi ha permesso di essere quella che sono e di esprimere la mia creatività al meglio». Un problema quello dell’emigrazione che le sta a cuore. Infatti la prima cosa che mi dice è «ho appena visto un servizio del programma televisivo, Community,che parlava dell’emigrazione italiana in Argentina durante il secolo scorso. Milioni di italiani sono arrivati in quella terra agli inizi del ‘900 e hanno avuto un’accoglienza esemplare. Sono stati ospiti di strutture che garantivano loro un alloggio, la possibilità di nutrirsi e, se erano malati, di curarsi. Una cosa eccezionale se si pensa alle condizioni economiche dell’Argentina in quegli anni. Eppure quell’attenzione c’era. È mai possibile che l’Italia e l’Europa in generale non siano capaci di avere un piano organico per una politica dell’emigrazione e che l’Italia non riesca ad imporsi chiedendo regole e aiuti che le sono dovuti, vista la posizione strategica nello scacchiere internazionale? Semplicemente c’è bisogno di una politica sociale di emigrazione chiara che le permetta di accogliere i migranti a condizioni umane e allo stesso tempo le consenta poi a ragione di chiedere di rispettare le leggi della cultura e del paese ospitante a chi decide di stabilirsi qui».

marialina marcucci3Asciutta, essenziale, elegante (caratteristiche peculiari del suo stile), sorriso comunicativo, occhi vivaci, curiosi da teenager nonostante sia fiera di essere una nonna (seppure ancora giovanissima) e in cui brilla il fievole, ma tenace barlume di una luce di speranza di potere vedere un mondo migliore e un futuro per quelli che verranno dopo di lei, Marialina Marcucci rivendica la sua legacy nella “lucchesità’” come marchio della sua fortunata carriera. «I lucchesi, popolo di migranti, sono gente operosa che ama vedere i frutti del proprio lavoro e dei propri risparmi. Non a caso esiste un’associazione molto famosa e rispettata di emigrazione che si chiama ‘Lucchesi nel mondo».

Ci siamo conosciute quando era ancora Vicepresidente della Regione Toscana e ricordo che al primo impatto mi parve straordinariamente curiosa del mondo e degli altri, molto down to earth, con uno spirito davvero americano, proprio per la scioltezza e la familiarità che mettono immediatamente a proprio agio chiunque le stia di fronte, sia esso l’usciere o il primo ministro. Diversa sia dai suoi colleghi imprenditori maschi, sempre con la testa altrove, che dai politici classici che misurano i minuti di attenzione secondo l’utilità che l’interlocutore riveste, Marialina Marcucci ha viaggiato e viaggia moltissimo. Il viaggio è una nota che appartiene al suo DNA. Come più volte ribadisce, attribuisce però il suo successo alla capacità sua e della sua famiglia di rimanere e operare in lucchesia. «E questo parte da lontano, da mio nonno che a 11 anniemigrò in America, a Chicago, fondando con i suoi 10 fratelli la Gonella Baking Company (una società produttrice di pane e prodotti da forno che ancora esiste). Tornando definitivamente a Lucca dopo avere fatto fortuna e avere lasciato moglie e figli a Barga affermò che “ogni dollaro da emigrante sarebbe dovuto servire per non fare emigrare altri della sua terra fuori da Barga e dall’Italia”. Così impegnò il suo denaro in imprese che sarebbero dovute nascere, essere dirette e sviluppate a partire dalla sua Valle del Serchio».

videomusicIl padre di Marialina che fece la sua fortuna con imprese farmaceutiche «decise un giorno, proprio per l’amore inculcatogli dal padre per la propria terra, di fondare insieme a quelli che una volta si chiamavano “antennisti”, oggi divenuti tutti importanti industriali del settore, una società capace di avere ripetitori sulla dorsale appenninica in grado di funzionare come trasmettitori dei pochi canali televisivi esteri allora esistenti. Questo gli avrebbe permesso anche di interloquire direttamente con le sue aziende sparse per l’Italia, utilizzando i ponti radio come un circuito chiuso, pur rimanendo nella sua terra; allo stesso tempo intuì che il business delle tv commerciali avrebbe avuto un grande futuro in Italia». Qui si inserisce Marialina Marcucci che dopo avere lavorato nel settore del turismo con un’agenzia di viaggi al Ciocco divenuto poi famoso per essere un punto di ritrovo di artisti e musicisti famosi da David Bowie a Eric Clapton, a 19 anni entra nel mondo della comunicazione. Nel 1984 fonda Videomusic, una televisione allora di “nicchia” che trasmetteva musica 24 ore su 24 e che si impose quasi subito presso il pubblico italiano più giovane e appassionato del nuovo genere videomusicale. Rivoluzionò in questo modo le abitudini nazionali delle trasmissioni via etere. L’avventura continuò con l’acquisizione dell’inglese Super Channel una tv via cavo che, sottratta al magnate Richard Branson che con le ITV inglesi stava andando verso il fallimento, raggiungeva oltre tredici milioni di famiglie in tutta Europa. Un vero successo. Soprattutto se si considera che nel 1993, quando viene venduta dalla sua famiglia alla General Electric diventando prima NBC Super Channel e poi NBC Europe raggiungeva 56 milioni di case. «Quello è un esordio molto lontano che avviene ben prima del 1984, incredibile ma vero, prima di Berlusconi. Come donna posso dire che, venendo da una famiglia dove le donne hanno sempre lavorato e sono sempre state indipendenti, (mia madre e mia nonna erano maestre), ho trovato naturale fare del lavoro la mia ragione di vita che, non lo nascondo, spesso mi ha provocato anche dei gravi danni nella vita privata. Non ho incontrato pregiudizi di nessun tipo in famiglia e fuori. In più essendo la prima e molto più grande degli altri figli, ambedue maschi, in un certo senso ho aperto loro la strada. Certo è vero ho lavorato sempre circondata da uomini, ma nessuno mi ha fatto pesare il mio essere donna. Solo in un paio di occasioni mi sono trovata con grandi imprenditori che mi hanno trattato con un po’ di accondiscendenza paternalistica o, come nel caso del primo imprenditore italiano nel campo della comunicazione, che ha raccontato un aneddoto misogino sulle segretarie in mia presenza. Ma non posso dire che ci siano stati in generale pregiudizi nei miei confronti. Ho vissuto gli anni dell’ascesa del senso comune verso la liberalizzazione dell’etere, l’attesa per le regole trasparenti e chiare tese a garantire accesso e diversità. Quel senso comune caratterizzato dalla voglia crescente di misurarsi e vincere sul merito: poi più niente, solo la conferma di ciò che Springsteen espresse con rabbia in una sua canzone a proposito della speranza creata in America dalla nascita dei canali via cavo: 87 channels and nothing on!’ Però quanto entusiasmo e innovazione furono espressi in quella stagione prima della sconfitta! Resta comunque la gioia oggi di trovare in quelli che considero gli sviluppi migliori di Tv e di new media qualche seme gettato all’epoca».

Dopo questo periodo molto esaltante, Marialina Marcucci entra in politica. Un mondo almeno in apparenza molto diverso da quello della comunicazione. Nel 1995 dopo essersi dimessa da ogni carica o incarico del Gruppo Marcucci viene eletta Consigliere Regionale alla Regione Toscana e successivamente nominata Assessore alla Cultura alla Comunicazione e allo Spettacolo e Vicepresidente della Giunta Regionale. Nel 1999 le viene anche assegnata anche la delega al Turismo, Alta Tecnologia, Emigrazione e Investimenti nei Beni Culturali. Erano gli anni in cui si affermava Berlusconi che, come lei, veniva dal mondo imprenditoriale e della comunicazione e aveva deciso di entrare in politica. C’è qualcosa in comune tra le due? «La comunicazione ha molto a che vedere con la politica. L’una ha bisogno dell’altra per sopravvivere. Dagli anni ‘80 cominciò la loro commistione che oggi è divenuta essenziale ad ambedue, anche se, va detto, adesso i politici sono diventati semplicemente autoreferenziali e i talk show sono in crisi. Tuttavia in passato sono state indissolubilmente legate a doppio filo. Basta vedere cosa ha fatto Rupert Murdoch con Fox news. Sulla Tv, Berlusconi inizialmente ebbe l’intuizione che stava diventando importante non tanto per i contenuti, ma come contenitore per la pubblicità. Ebbe ragione perché capì la funzione del mercato e come imprenditore risultò vincente. E plasmò la politica su quel modello. In politica, è mio convincimento, (e sicuramente non per primo), entrò perché le sue aziende erano in crisi e doveva salvarle. Certo è che più avanti si convinse anche che quella discesa in campo fosse il bene del paese. E la politica di allora lo sostenne perché Fininvest aveva 14.000 dipendenti e la si doveva aiutare. E perché i politici di allora avevano certamente la loro convenienza».

«In politica io ci sono entrata per caso. Mi fu chiesto di candidarmi alle elezioni regionali nel listino di Chiti anche se all’epoca non sapevo né cosa fosse un listino né chi fosse Chiti. Dopo avere venduto Videomusic a Cecchi Gori in polemica con la mia famiglia che contrariamente a me aveva insistito per vendere, mi presentai alle elezioni e fui eletta. In realtà fu una circostanza molto fortunata. Quello è stato un periodo fantastico, entusiasmante: avevo la sensazione della possibilità del cambiamento, della ricerca di un’innovazione e di una grande capacità di fare. Poi più niente: anni, ormai decenni, di frustrante impasse. Ancora oggi, poteri avversi si scontrano, vincono, perdono, ma un futuro diverso sembra lontano. Quello che purtroppo non si è perso in Italia è un ideologismo di maniera che all’apparenza sembra scomparso, ma che in realtà continua a esistere e a mietere vittime eccellenti e meno. Ed è proprio questo che ci impedisce di rinnovarci e di guardare al futuro. Per capire bisogna guardare lontano. Non basta ripensare con nostalgia a Berlinguer e alla questione morale se non si compiono scelte coraggiose, radicali che possono davvero portare il cambiamento. Non si può aggiustare una casa pericolante. Bisogna rifare le fondamenta, perché altrimenti il resto che è tutto marcio alla fine crolla. Faccio un esempio: nel 1975 quando a Firenze il sindaco comunista Gabbuggiani ospitò i dissidenti russi, il Pci di allora avrebbe dovuto semplicemente plaudire alla circostanza senza anche accusare quell’evento di avere incoraggiato lo spirito e i poteri reazionari. Quella era la doppia verità di stampo togliattiano che ha rovinato il partito comunista. Il Pci allora avrebbe dovuto cogliere quell’occasione ormai lontana per liberarsi ideologicamente e compiere una scelta estrema che avrebbe aiutato tutta la sinistra a cambiare veramente. Invece no. Così ancora oggi esistono non tanto contenuti ideologici, ma il guscio vuoto di quello che l’ideologia ha significato e si continua a parlare di fascismo, di comunismo, evocando fantasmi che non esistono più. Senza fare piena luce sul loro significato passato e attuale e senza distruggere il mito di una sinistra indenne da colpe, da atrocità. Basta dire: quello è fascista o quello è comunista e quello è marchiato. Mentre, prima, l’ideologia serviva per coprire interessi personali oggi che l’utile particulare è divenuto il primo obiettivo dei politici ed essa è piegata a piacimento dai gruppi di potere, serve solo come etichetta per eliminare un possibile avversario politico sbandierando spauracchi vuoti di qualsiasi contenuto, ma che ancora, almeno nell’immaginario collettivo, riescono a evocare paure e timori. Oggi che non esiste più una classe dirigente degna di questo nome, voltare pagina allora vuol dire davvero compiere una profonda riflessione su cosa ha significato ad esempio la caduta del Muro di Berlino. Da lì bisogna ripartire. È vero, oggi assistiamo a un disastro che ormai da tempo appariva annunciato, ma io non sono senza speranze. Soprattutto per i miei figli e per i miei nipoti. Però ci vuole il coraggio di ribaltare le cose e cambiare tutto. Ad esempio se il presidente del Consiglio Renzi sarà capace di distinguere il futuro personale della sua leadership da quello del paese, allora ci sarà speranza. E questo dipende ovviamente da lui ma anche dall’opposizione interna del suo partito e di quello con cui ha siglato un patto di non belligeranza. A questo si aggiunge un altro problema. La corruzione è così diffusa che non bastano gli aggiustamenti, i “pannicelli caldi” dei commissariamenti o dell’autorità di un prefetto o del cambiamento di alcuni membri di una giunta per uscirne. Milano, Venezia, Roma sono esempi destinati a moltiplicarsi se non si compiono scelte radicali. Bisogna voltare pagina. È vero: è la società civile a essere malata, ma non si può continuare a vivere nell’indifferenza come se le nostre menti fossero state anestetizzate, come se non dipendesse anche da ciascuno di noi avere un comportamento onesto in cui la “cosa pubblica” ritorni a essere pensata come bene comune. La politica e l’amministrazione della cosa pubblica, negli anni in cui le ho vissute io, ancora oggi mi mancano, ma la caduta del primo governo Prodi, e ciò che accadde nei due anni successivi, mi convinsero che la spinta innovatrice nella quale avevo creduto all’alba del ’95 si sarebbe fermata… e per molti anni. Meglio quindi tornare a produrre in campi nei quali, nonostante incongruenze istituzionali e orpelli burocratici, talento e creatività avrebbero potuto costituire un baluardo di frontiera a protezione e salvaguardia di ciò che sarebbe rimasto in piedi nel nostro paese!»

Così Marialina Marcucci nel 2000 al termine del suo mandato politico decide di tornare al mondo dell’imprenditoria costituendo la società Brama Editrice, diventa editrice della testata TIME OUT a Roma e Milano di cui è stata presidente sino al 2002 quando ha fondato ULTIMA S.r.l., società di servizi che ha operato nel settore della comunicazione. A ciò si aggiunge nel 2001, a riprova della constatazione del deterioramento della classe dirigente e amministrativa italiana, la fondazione del Campus Studi del Mediterraneo una fondazione no profit che promuove attività di apprendimento sperimentali in settori innovativi di istruzione superiore come il turismo. «Come scherzosamente dice mio fratello, io sono una delle poche “giurassiche” tuttologhe viventi che hanno avuto la fortuna di nascere e crescere professionalmente in tempi in cui ancora era permesso a un imprenditore di avere i tempi “per imparare”. Oggi serve specializzazione, capacità innovativa e internazionalità per potere competere sia professionalmente che imprenditorialmente nel mondo. E le nostre università, per certi versi fantastiche, soffrono molto sul versante dell’innovazione e della internazionalizzazione: Campus ha voluto essere, e credo lo sia diventato, un piccolo luogo e un progetto pilota per esplorare nuovi metodi e nuove strade del sapere e per formare, almeno in alcuni settori, una classe dirigente più adatta all’oggi».

marialina marcucci2Dal 2002 al 2007 Marialina Marcucci è stata presidente del quotidiano nazionale di politica economia e cultura l’Unità lo storico giornale fondato da Antonio Gramsci e rilanciato nel 2001. Un’esperienza diversa da quella delle Tv e dell’etere in generale, ma anche da altri mezzi di comunicazione come internet. «Una delle motivazioni costanti delle scelte della mia vita è sempre stata la curiosità, la voglia di conoscere. La spinta verso la politica e l’amministrazione della “cosa pubblica” fu in parte ispirata dalla voglia di capirne i meccanismi e le ragioni profonde. Compresi che certe scelte che in quegli anni vennero fatte apparivano ai miei occhi di cittadina e imprenditrice , assolutamente sbagliate e lontane (e sfortunatamente oggi più che ma!) dall’essere razionalmente riconoscibili come buone per lo sviluppo sociale ed economico del nostro Paese. Allo stesso modo, misurarmi con un progetto editoriale “convenzionale”, prometteva la scoperta di un mondo per un verso molto lontano dalla mia esperienza di editore televisivo, ma dall’altro ancora così capace di influenzare la classe dirigente del Paese, nonostante l’ascesa prorompente in quegli anni di internet e new media. Inoltre la carta stampata fissa nel tempo, produce pensiero, esige scelte quotidiane. È rinunciabile anche se per la mia generazione non lo è mai stata e non può esserlo. Per quanto mi riguardava io volevo capire , conoscere, esplorare . Un quotidiano politico a stampa racchiudeva in sé tutti i segreti di quella politica, di quella cultura, di quei meccanismi, che tutti, a parole, dichiaravano finiti, morti e sepolti. Ed è stato proprio quell’accumulo di vecchio che resiste e non vuole morire, quei meccanismi resistenti all’innovazione, quella politica arroccata nell’intento unico di proteggere se stessa e miope di fronte al mondo che cambia a decretare la morte di un giornale che secondo me (ne sono convinta tutt’oggi) avrebbe avuto ancora molto da dare!».

kerry kennedy  marialina marcucciCome si vede un occhio, quello di Marialina, da outsider, innovatore, di respiro internazionale e molto americano sui fatti italiani. Marialina Marcucci ha infatti un rapporto con il mondo anglosassone, dove si è formata, e con l’America in particolare, come abbiamo detto, un po’ speciale e privilegiato. Dal 2005 è presidente e rappresentante legale della Robert F. Kennedy Foundation of Europe Onlus, una fondazione, la cui presidente onoraria, Kerry Kennedy (insieme a Marialina Marcucci nella foto), una degli undici figli di Robert, è una sua cara amica. E allora in cosa si sente americana? «Credo in parte sia frutto dell’italoamericanitudine del mio passato, un passato cioè figlio di un’emigrazione che ha costretto la mia famiglia a sradicarsi dalla propria terra per trovare rifugio e fortuna in un grande paese straniero che accolse mio nonno e gli permise di conquistare un’indipendenza economica. Quel paese, l’America, ha anche grandi tradizioni democratiche e coltiva la libertà di pensiero e di azione (salvo rare eccezioni a cui proprio in questi giorni stiamo assistendo, come nel caso della Cia) come valori supremi. Forse è proprio quel punto di vista esterno alle vicende italiane, che quasi geneticamente mi appartiene, e che, pur essendo io italiana al 100% mi ha fatto sempre sentire la necessità di sentirmi libera. Ho sempre visto la libertà come un bene assoluto essenzialmente legata tuttavia ad atti di coraggio, alla capacità di cambiamento e alla mobilità. Da questo punto di vista l’Italia deve smetterla di difendere la propria territorialità’, di essere ripiegata su stessa, sulla piccola comunità e aprirsi al mondo mostrando i suoi tanti talenti naturali e artistici, continuando ad esprimere quegli atti di solidarietà di cui il popolo italiano è sempre stato capace anche se ultimamente sembra averne dimenticato il valore per dare spazio ad una individualità monadica e isolata».

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