Claudio Conti
Disastri e cura dell'ambiente: l'esempio inglese

A Londra non piove?

Le drammatiche alluvioni che si stanno susseguendo in Italia ci imporrebbero di ripensare la gestione del suolo e delle acque. E invece si continua a sfruttare il terreno (come prevede la proposta di legge della Regione Lombardia). A Londra, invece...

Genova, Parma, Carrara, Chiavari, Albenga … non è l’itinerario per una vacanza, ma l’elenco – che si vorrebbe finalmente concluso – delle località in cui nell’arco di pochi giorni si sono susseguite alluvioni catastrofiche provocate dalla violenza dell’acqua. Purtroppo questa è una stagione notoriamente piovosa; sicché siamo ridotti a chiederci: dove si verificherà il prossimo disastro? Nel frattempo, in Regione Lombardia si è arrivati finalmente alla discussione in aula di una legge sul consumo di suolo, sulla quale mi sono soffermato in un precedente articolo (clicca qui per leggerlo). Tra le numerose caratteristiche negative vi è quella di affrontare la questione in modo indipendente e scollegato dal tema del deterioramento ambientale: come se questo non annoverasse tra le proprie cause anche la crescente antropizzazione del territorio. Al di là di tali considerazioni, va sottolineata l’assenza totale di riferimento ad esempi e “buone pratiche” relativi ad altri Paesi: dobbiamo perciò guardare alla Lombardia come ad un sistema relativamente isolato e racchiuso nell’involucro di quella (presunta) “eccellenza” alla quale fa sovente riferimento il suo Governatore?

Non sembrerebbe il caso; diamo perciò un’occhiata a un Paese non lontano da noi: il Regno Unito. Innanzi tutto, questa è l’evoluzione nel consumo di suolo qui registratasi nel decennio tra il 2000 ed il 2010:

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Come si vede, il suolo agricolo si è accresciuto: dal 67.9 al 69.1% della superficie totale. Anche quello antropizzato (dall’11.2 all’11.8%, mentre è il 15% in Lombardia); ma non a spese del primo. Ciò nonostante, non mancano le preoccupazioni: C.Clover sul Telegraph, sotto il titolo Urban sprawl may eat up countryside by 2100 («l’espansione urbana può mangiarsi il territorio entro il 2100»), già nel 2007 segnalava il deterioramento del Sud-Est (Surrey, Kent, Sussex). Su questo argomento, che ha visto la produzione di una mole imponente di regolamenti e normative, si è anche mobilitata l’opinione pubblica, come si vede dal sito della CPRE (Campaign to Protect Rural England).

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Resta il fatto, da me già ricordato altrove, che nello stesso decennio in Italia sono andati perduti in media 520 ha di suolo agricolo al giorno.

Consideriamo ora un’area specifica: la Greater London, che abbraccia in sostanza il tratto conclusivo o “mareale” (tidal) della valle del Tamigi, con una superficie di 1.572 km2 (che pertanto rappresenta solo l’1,2% del suolo inglese). Qui vivono 8,174 milioni di persone (17% del totale) con un PIL di 335 miliardi di Euro nel 2009 e un valore pro-capite che nell’Inner London raggiunge i 78.000 Euro l’anno: un esempio assimilabile alla Lombardia. All’interno della Greater London il tema dell’acqua – dal quale sono partito – è oggi affrontato da un insieme di agenzie (la Greater London Authority, l’Environment Agency, Natural England e la Forestry Commission) in una prospettiva integrata, in quanto elemento costitutivo di una realtà complessa, formata dall’insieme dei diversi ecosistemi e dei rispettivi servizi. Tra i principali obiettivi vi è quello di attenuare gli effetti delle mutazioni intervenute nel clima: il decennio 2000-2009 è stato infatti il più caldo dal 1850 in poi e le temperature in aumento implicano un cambiamento nel paradigma delle precipitazioni, con conseguenti rischi di inondazioni, periodi di siccità e ondate di calore. In particolare si è aggravato un problema che da noi ha fatto la storia di Venezia: quello concernente l’interazione tra mare e fiumi.

Gli effetti di intense precipitazioni che si combinano con l’alta marea che investe l’estuario di un corso d’acqua possono essere catastrofici. Nel 1970 circa 300.000 persone persero la vita nel Bangladesh quando il ciclone Bhola si abbatté sulle coste del Paese; nella valle del Tamigi nel 1953 perirono oltre 300 persone in conseguenza di una alluvione resa disastrosa da questa azione congiunta; a partire da quella data, la strategia di difesa dalle esondazioni del fiume è stata oggetto di un ripensamento radicale che ha portato al Thames Barrier Flood Prevention Act del 1972. Sino ad allora la protezione dalle esondazioni era affidata agli argini lungo le rive, sempre più alti e robusti; si è finalmente compreso che, per ottenere una prevenzione più efficace, era opportuno porre sotto controllo la marea mediante una barriera costituita da chiuse mobili: una idea in fondo non molto dissimile da quella che ha ispirato il progetto MOSE per difendere Venezia dall’acqua alta (per inciso, una impresa della quale si parla in Italia dal 1986, e che solo oggi, in mezzo a gravissimi scandali sui quali indaga la magistratura, vede iniziare la sperimentazione delle prime 4 paratie previste su un totale di 74) .

È di grande importanza comprendere quando la marea può divenire pericolosa. Di norma le perturbazioni atlantiche che investono da Nord le isole britanniche creano una sorta di convessità sulla superficie del mare: in altri termini, il livello di quest’ultimo tende a crescere sotto la depressione. Se questa grande massa d’acqua si incanala verso i bassi fondali del mare del Nord in direzione dell’estuario del Tamigi si creano condizioni di serio rischio, che può essere accentuato in concomitanza di una alta marea di plenilunio (il che – per inciso – accade 2 volte al mese).

Rispetto a queste eventualità ecco in sintesi come è organizzata attualmente la difesa:

  • alla confluenza del Barking Creek con il Tamigi si trova la Barking Barrier, una imponente struttura verticale alta 38 metri con una saracinesca mobile normalmente mantenuta a 36 mt dal livello dell’acqua;
  • ad Est di quest’opera verso l’estuario sono state erette protezioni anti-inondazione per oltre 30 km:
  • immediatamente a monte troviamo il Gallions Flood Defence Gate a protezione della Gallions 
Marina ed il King George the V Gate all’ingresso ai Royal Docks;
  • ancora più a monte è stata predisposta l’opera certamente più significativa ed innovativa dell’intero 
sistema: la Thames Barrier di cui dirò tra breve;
  • proseguendo verso Ovest sono state innalzate difese di tipo convenzionale (argini), alle quali è 
affidata la sicurezza nel caso di maree di entità tale da non giustificare l’intervento della Thames Barrier. 
Quest’ultima è in sostanza una struttura disposta trasversalmente rispetto al corso del fiume per oltre mezzo km e costituita da 10 chiuse mobili, ciascuna imperniata e sostenuta tra pontili di cemento dove sono sistemati gli strumenti di controllo e i macchinari per il funzionamento, che consentono la rotazione descritta dalla sequenza qui sotto. Le chiuse principali sono 4: alte circa 20 mt, assieme al rispettivo contrappeso costituiscono un complesso di 3.700 tonnellate ciascuna; ogni porta a sua volta è in grado di reggere un carico di 9.000 tonnellate. Accanto ad esse ve ne sono altre 2 più piccole, ma di analoga progettazione; il sistema infine è completato da 4 chiuse a caduta sistemate presso le banchine, e attraverso le quali non è consentita la navigazione commerciale.
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C’è di che essere tranquilli? A detta degli esperti, la Thames Barrier è in grado di fronteggiare l’innalzamento del livello del mare di qui al 2030. Una data molto vicina, che impone evidentemente la ricerca di nuove soluzioni: un compito urgente, se si tiene conto dei tempi necessari alla progettazione, alla scelta della soluzione ottimale, alla sua realizzazione ed infine al suo collaudo. Del resto la barriera è stata chiusa ben 119 volte dal 1983 ad oggi per scongiurare il pericolo di inondazioni, dilatato a Londra dalla natura del sottosuolo, che è prevalentemente argilloso e dunque impermeabile: sicché, in caso di precipitazioni piovose di grande intensità, è probabile che il sistema complessivo di drenaggio risulti insufficiente a smaltire la massa d’acqua, come del resto è accaduto nel 2000 e nel 2007.

Come si vede, un quadro fatto di luci ed ombre (tra queste ultime andrebbe ricordata la privatizzazione del servizio idrico integrato che, secondo la stessa stampa conservatrice, rappresenterebbe il “più grande furto legalizzato” della storia recente del Paese; ma questo è un argomento che ci porterebbe lontano). Piuttosto, merita qui ricordare la particolare attenzione dedicata all’interno della Greater London ai temi della biodiversità, del paesaggio e del verde pubblico. A differenza di quanto si potrebbe comunemente supporre, lo spettro della biodiversità nell’area della Greater London è ampio, e numerosi sono gli habitat naturali: vi si trovano infatti circa 1500 cosiddetti SINC (Sites of Importance for Nature Conservation, ovvero siti rilevanti per la protezione della natura), dei quali 36 sono classificati come SSSI (Sites of Special Scientific Interest, o località di particolare interesse scientifico): 27 per motivi di ordine biologico e i restanti 9 per la loro importanza geologica. Nel complesso i SINC abbracciano oggi 30.000 ettari, vale a dire circa 1/5 dell’intera superficie, dei quali 1.000 sono stati “conquistati” tra il 2001 ed il 2010. Un indubbio successo, perché ogni porzione di territorio in più acquisita come SINC costituisce un segnale inequivocabile di miglioramento nella qualità dell’ambiente.

Vista dall’alto, la Greater London è senz’altro una delle conurbazioni più “verdi” esistenti sul pianeta, con oltre 5.900 ettari di spazi designati come meritevoli della Green Flag, lo standard introdotto nel 1996 nel Regno Unito per ottenere la classificazione di area verde. Una parte consistente di questa enorme superficie – circa 3.100 ettari – è costituita da veri e propri parchi, 8 dei quali classificati come Royal Parks, vale a dire formalmente di proprietà della Corona: su di essi il pubblico non possiede alcun diritto, dipendendo l’accesso “dalla grazia e dal favore” del sovrano (o sovrana). Tuttavia l’interesse dell’esempio inglese non consiste semplicemente nell’estensione del verde pubblico; piuttosto merita soffermarvisi per la particolare prospettiva con cui questo tema viene affrontato. Si tratta di un modo di pensare che è bene evidente nello specifico strumento di pianificazione del quale l’amministrazione della Greater London si è recentemente dotata: l’ALGG, ovvero l’All London Green Grid (il “reticolo verde” londinese). L’idea-basesottostante può essere così sintetizzata: accanto alla infrastruttura tradizionale, o “grigia”: strade, piazze, reti fognarie ecc., dobbiamo oggi prendere in considerazione una nuova infrastruttura “verde”: parchi, verde pubblico, spazi aperti, corsi d’acqua ecc., destinata a divenire la vera e propria infrastruttura di riferimento, integrando inizialmente la prima ed in definitiva superandola nel lungo periodo, allo scopo di conseguire benefici di natura non solo ambientale; ma anche sociale ed economica. Nel caso dell’infrastruttura “grigia” i percorsi prendono il nome di vie, strade, viali, vicoli ecc.; nel linguaggio dell’infrastruttura “verde” quelli maggiormente rilevanti si chiamano corridoi (ecologici); altrimenti si parla di connessioni (links) o tragitti.

Il “paesaggio”– secondo questo modo di pensare – è il risultato di un duplice processo di sedimentazione storica: naturale ed umana. La lingua inglese sintetizza quest’ultima nel termine heritage, che riveste un profondo significato, anche emozionale, in un paese in buona parte conservatore ed attaccato alle proprie tradizioni. Per questo motivo anche la geo-diversità, intesa come risultato della storia geologica della regione, e le tracce della storia degli uomini entrano a buon diritto nella “griglia” (grigia e verde) complessiva.

Per concludere: è possibile creare un mondo migliore? Questa sembra essere la sfida fatta implicitamente propria dalla Environment Agency … Istituita dalla legge sull’ambiente (Environment Act del 1995), risponde al Ministro per l’Ambiente e lo Sviluppo Sostenibile, è responsabile per oltre 7.400 km di difese fluviali e 42.000 km di corpi idrici fluviali ed allo stesso tempo, per quanto riguarda la politica degli investimenti, è impegnata in una gestione degli appalti che si propone di realizzare entro il 2015 incrementi di efficienza dell’ordine del 15%. Perché si vada verso un mondo migliore non è sufficiente impegnarsi a renderlo più sano, pulito ed armonioso: occorre fare in modo che sia meno discriminante, e questa è tra le principali “missioni” dell’Agenzia. La legge contro la discriminazione dei disabili (Disability Discrimination Act del 1995) ha per la prima volta introdotto nella legislazione inglese il concetto di “adeguamento ragionevole” (reasonable adjustment); in precedenza essa si limitava a prendere in considerazione gruppi di persone nei confronti dei quali fosse stata esercitata una qualche discriminazione. Un adeguamento ragionevole presuppone un atteggiamento rivolto attivamente a rimuovere tutte le barriere verso i disabili. Ovvio, verrebbe da dire; salvo poi ricordarsene quando è necessario …

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