Leo Carlesimo
Un racconto sul colonialismo

Kourouma, il minatore

Alle volte, in un particolare, in una digressione della memoria c'è il senso di un fenomeno globale. Come in questa storia delle dighe, di una donna morta e dei bianchi che non volevano crederci, in Africa...

Kourouma arrivò sul suo pick-up dalla strada del campo dei neri. Saltammo a bordo, Dal Pont ed io, lui in cabina io nel cassone, e percorremmo il breve tratto di sterrato che sale in cava. Aprimmo il cancello della polveriera. Attorno, oltre la recinzione, s’alzava il terrapieno brullo e scuro e al suo interno sorgeva isolata la casamatta. Prelevai due cartoni. Dal Pont firmò il registro della presa in carico. All’estremità opposta della piazzola interna, protetta da un’inferriata, stava la garitta dei detonatori. Kourouma armeggiò col mazzo di chiavi, aprì una porta chiusa da un paletto e all’interno di uno stanzino non più grande di un armadio trovammo la custodia. Dal Pont contò dodici pezzi, firmò il registro e uscendo inchiavardò lucchetti e catenacci.

Cominciava appena a schiarire e nella luce grigia, guidati dai fari, cercammo i dodici picchetti infissi nella roccia. Erano allineati a una ventina di metri l’uno dall’altro, ciascuno sulla sua montagnola. Kourouma orientò i fari del pick-up per farsi luce, estrasse dalla cassa una cartuccia di dinamite, la incise, ci infilò dentro il detonatore, collegò  il cavo, lo srotolò e lo fissò a terra sotto una grossa pietra. Poi risalì in macchina e passammo al picchetto successivo.

Al dodicesimo picchetto era ormai giorno. Il sole s’era alzato e il vento soffiava teso, carico di polvere. L’aria era torbida e l’orizzonte chiuso, e nella foschia mattutina, dall’alto della cava, vedemmo quella gente arrivare.

Piccoli e numerosi, neri come insetti, parevano usciti da sotto un sasso o scaturiti da una crepa del terreno, e avanzavano lentamente, incolonnati, verso l’incisione del fiume. Dovevano aver marciato tutta la notte per trovarsi a quell’ora già al guado. Il fiume si passava a metà dell’ansa, su una soglia di massi sporgenti. Scesero dalla terrazza che s’affacciava sul letto ormai quasi asciutto e traversarono facendo catena, immersi fino alla cintola, sgranandosi nell’acqua bassa e limpida in una lunga fila debolmente incurvata dalla corrente. S’arrampicarono sull’altra sponda e risalirono il pendio. Nella foschia dell’harmattan li si confondeva con le rocce e gli alberi.

Pareva la solita giornata asciutta, ventosa e cupa e già i pennacchi dei silmandé, le esili trombe d’aria che vagano per la brousse, cominciavano a levarsi sopra il giallo spento della pianura. Recuperammo i cavi e li srotolammo fino al punto indicato da Dal Pont. Al riparo di un masso, Kourouma fissò i microritardi a quattro secondi l’uno dall’altro.

* * *

digaPiù tardi, con la luce, il vento cadde. C’era ressa alla barriera del carrefour, la gente spingeva per farsi largo. Di minuto in minuto la folla aumentava e i gendarmi non reggevano più la pressione. Sicché a un bel momento il comandante diede ordine di aprire e i villageois sciamarono oltre la sbarra, carichi di roba come al mercato, tutti avvolti nei loro stracci luridi, eccitati e vocianti, a festeggiare.

Era una mattinata calda e il cielo prese una limpidezza rara in dicembre. La polvere si depositò e fece finalmente capolino un pallido sole. Smorto, ma sufficiente a ridare alla brousse profondità e colore. Il paesaggio riemerse, per nulla sporcato dal lungo bagno di polvere. Una bella giornata, com’è raro che capiti in questa stagione. Il sole intiepidisce e pare proprio che l’aria voglia farsi più serena.

Verso le nove si celebrò la messa, nel capannone dell’officina tramutato in chiesa. L’hangar d’acciaio e lamiera era stato ripulito e decorato a festa: via l’ammasso di ferraglia dal piancito, via i bidoni di grasso e d’olio bruciato. Bombole d’ossigeno e d’acetilene erano ammucchiate negli angoli e cassette di ferri ordinate in colonne, schiacciate contro le pareti. Al gancio del carroponte era appeso un grande crocefisso d’acciaio nero, due putrelle saldate a squadro, senza Cristo. La croce ondeggiava alta sotto la capriata e il saldatore che l’aveva fabbricata – un vecchietto zoppo con un ramo di cola infilato tra i denti – l’osservava salire soddisfatto. Pendeva giusto sopra l’altare, attrezzato alla meglio con una grossa cassa da ricambi coperta da un lenzuolo, i caratteri neri di pistola a spruzzo – CATERPILLAR ALTO FRAGILE – visibili in trasparenza sotto la tela bianca.

Dalla missione arrivò don Saverio, trascinandosi dietro una vecchia borsa di cuoio con dentro i paramenti. I ragazzini del coro estrassero dalla borsa un pisside e un’incensiera, un tabernacolo e un librone rilegato in radica, e li appoggiarono sull’altare. Mentre apparecchiavano, dietro il paravento della torneria don Saverio indossò la tunica e la stola.

La messa durò più di un’ora. Don Saverio ripeté tutto due volte, traducendo dal mooré in italiano, frase a frase, per i pochi bianchi presenti. Era il 4 dicembre, Santa Barbara, festa dei minatori, e don Saverio dedicò la predica al lavoro. Disse che Dio, per quanto vigile, non può occuparsi di tutto, e magari ogni tanto si distrae, come la settimana scorsa quando quel manovale finì schiacciato nella volata; ma se c’è una cosa che mai non sfugge alla benedizione divina è il lavoro dell’uomo, e un lavoro serio e duro è la via maestra della santità. Il coro cantò, gli uomini accosciati suonarono i djembé e le donne danzarono. C’era il naaba di Kas’sela in prima fila, nel suo boubou amaranto, grande e solenne come un cardinale. Benché di religione musulmana, il naaba partecipò ugualmente, perché la messa di Santa Barbara di Boké era il battesimo ufficiale della diga, e tutti – neri e bianchi, cristiani animisti e musulmani – avevano diritto di partecipare. C’erano il prefetto della provincia di Boulgou e il comandante regionale della gendarmeria, l’haji e i dignitari al seguito del naaba, il commissario delle dogane, i rappresentanti del ministero, dell’ambasciata e delle banche. Molti neri, qualche bianco. Il naaba troneggiava. Alto e massiccio nel suo boubou regale, impugnava il bastone e ascoltava impettito il credo che don Saverio recitò lento, in mooré, con la sua voce cavernosa. Ammassata tra le panche, all’impiedi, fuori e dentro al capannone, la distesa di folla occupava tutto il piazzale: gli operai e le loro famiglie, la gente di Boké e dei villaggi vicini, i notabili di Kas’sela e quelli venuti da Ouagadougou e in mezzo, sperduti, noialtri italiani.

Al momento dell’elevazione Kourouma fece brillare le dodici cariche. I boati piovvero dall’alto della cava, e il rimbombo fece eco contro la parete di roccia e tornò a piovere, sminuzzato e riflesso, sulla folla impaurita, che a ogni colpo era percorsa da un fremito, le donne portavano le mani alle orecchie e i bambini scoppiavano a piangere.

Ma i dodici colpi partirono nella sequenza giusta, di quattro eterni secondi in quattro eterni secondi per dodici interminabili volte, e quando Kourouma tornò dalla cava, Dal Pont gli strinse la mano e gli diede una pacca sulla spalla. “Bella volata!”, gli disse. Poi ci fu la festa.

bambini africaniIn fondo al piazzale, il palco delle autorità spiccava bianco, sotto il tendone impavesato di drappi e bandiere. Seguivano a distanza, allineate in ordine gerarchico, le tavolate degli impiegati, dei tecnici, degli operai e dei villageois, assiepati sulle panche, sotto tettoie di legno e paglia. I cuochi si davano da fare col meshwì. I montoni arrivarono su stecche di legno, portati a spalla, grondanti grasso e ancora fumanti. Si mangiava con le mani, staccando i bocconi dal vassoio centrale e intingendoli nella polvere di spezie e di cumino, e si beveva vino italiano.

Kourouma sedeva tra me e Dal Pont. Magro magro, un osso, la faccia incartapecorita cosparsa di cicatrici tribali, sormontata di ciuffi crespi tutti arruffati, i grandi occhi cerchiati e le labbra enormi che continuavano a muoversi spruzzando saliva, attorno alle gengive scure da cui spuntava rado qualche dente. Sul petto scarno gli penzolava la casacca da lavoro grigia, semiaperta, di tela spessa e rigida; e dal sorriso beato che gli vagava sulle labbra capivi che il complimento di Dal Pont gli aveva fatto piacere. E come capita talvolta ai vecchi in questi festini largamente annaffiati d’alcol, s’abbandonavano via via ai ricordi, lui e Dal Pont, e diventavano sentimentali; finché Kourouma attaccò quella storia, la storia del suo primo invaso, quand’era giovane, a piccolo Shjigoro…

* * *

Non era il pezzo d’Africa dove siamo ora. Era molto più a sud, una regione interna di montagne e altipiani. Nelle vicinanze del villaggio, il fiume, passando tra le gole, formava due cascate: Piccolo Shjigoro, sul gradino più basso, appena sopra le prime alture; e Grande Shjigoro, parecchio più a nord, dove l’altopiano cominciava a farsi arido e brullo e le valli si stringevano e bastava salire ancora un po’ perché a volte d’inverno apparisse la neve. Il nome del posto vuol dire “fumo che tuona”, per via della schiuma e del pulviscolo d’acqua e del rumore della cascata. Era il suo villaggio, lui ero nato lì.

Quando decisero di costruirci una diga, giunse per prima una compagnia d’Inglesi, gli Italiani vennero solo dopo. Gli Inglesi s’installarono poco prima delle piccole piogge, quando il fiume era ancora in magra, s’accamparono sul greto e in poche settimane aprirono una pista sul fianco della montagna, che dal basso, a tornanti, saliva su fino al primo gradino, e quando la pista fu pronta arrivarono dalla costa convogli di macchine e colonne e colonne di camion, che scaricarono montagne di materiali e li ammassarono in una grande conca a due passi dal fiume. I ragazzi del villaggio erano eccitati da tutto quel trambusto e lo guardavano con un misto di curiosità e timore, perché nessuno aveva mai visto niente del genere nei paraggi e parecchi di loro vedevano allora i bianchi per la prima volta. Gli Inglesi fissarono il loro campo a Piccolo Shjigoro e nell’arco di poche settimane lungo il fiume sorsero baracche e capannoni, furono eretti tralicci e stese tubazioni e fu aperto un cantiere. Poco dopo cominciarono le assunzioni.

Kourouma bighellonava attorno al campo, assieme agli altri ragazzi del villaggio; così per gioco, non cercava lavoro, allora neanche sapeva che cosa fosse. Dentro al recinto c’era un bianco, un tipo basso e grasso, sempre vestito di chiaro, con una barba biondiccia, che s’affacciava alla rete di cinta e fissava i neri con quell’aria insolente, gli occhi azzurri duri e calmi, le dita grassocce inanellate come una donna. Aveva degli aiutanti neri che parlavano un dialetto del nord e si davano delle arie, perché erano loro che reclutavano la manovalanza nei villaggi.

Un giorno uno di loro chiamò Kourouma. Era a poca distanza dalla rete di cinta. Gli fece cenno e gli chiese se capiva l’inglese. Kourouma gli disse di sì. Allora lui gli chiese se sapeva leggere e scrivere. Kourouma aveva frequentato una scuola rurale a qualche chilometro dal villaggio e un po’ aveva imparato. L’altro gli disse di seguirlo. Entrarono nel recinto. La baracca era una specie di grossa scatola bianca appoggiata su pile di mattoni. Dentro c’era un tavolo con due sedie, una lampada, un ventilatore che scompigliava i fogli ammucchiati sulla scrivania. Il bianco con la barba biondiccia sedeva lì dietro. Lanciò a Kourouma uno sguardo distratto e gli indicò una sedia. Poi gli allungò un foglio e gli disse di leggere. Kourouma lo fece, a voce alta, come gli avevano insegnato a scuola. Il bianco ascoltò la prima parte. Poi lo interruppe e gli disse che bastava, il resto poteva anche leggerlo tra sé e sé, lui non aveva bisogno di sentirlo. Ma Kourouma gli rispose che non sapeva leggere in quel modo e il bianco lo fissò con una cert’aria scontenta e gli disse di leggere pure come gli pareva. Kourouma lesse tutto ad alta voce e quando finì il bianco gli chiese se aveva capito. Kourouma non aveva capito proprio niente, non sapeva neppure di cosa quel pezzo di carta parlasse, ma disse: sì, certo, ho capito, sì. Il bianco lo squadrò di nuovo con quell’aria di scontento e disse che ciò che Kourouma aveva letto era un contratto e vi si parlava di lui. Lì gli si dava il nome di manovale e si diceva che la sua paga era di un cent all’ora, per dieci ore al giorno, per sei giorni alla settimana. Se era d’accordo, poteva scegliere se firmare o mettere l’impronta del pollice destro. Kourouma scelse l’impronta e il giorno dopo cominciò a lavorare per la Compagnia.

* * *

La costruzione della diga durò sei anni e quando finì Kourouma era minatore scelto, aveva imparato un mestiere e aveva anche imparato un bel po’ di cose sul conto dei bianchi. La diga era ormai quasi finita, s’avvicinava il momento dell’invaso, quando le paratoie sarebbero state calate, il fiume chiuso e la valle a monte inondata. Il fatto che Kourouma vuole raccontare avvenne proprio allora.

ghanaIl fiume era stato deviato in due gallerie che attraversavano su un fianco la montagna. Kourouma aveva lavorato per tutti quegli anni nelle squadre di minatori e conosceva quelle gallerie come i palmi delle sue mani, le aveva viste allungarsi volata dopo volata, e aveva imparato a scappare svelto, se il capoimbocco chiama il fuochino, perché i minatori in galleria non aspettano, quando sono pronti a sparare sparano, è un fatto tra loro e la roccia e non gli si può chiedere di perder tempo. Ma ora che avevano dentro il fiume, Kourouma guardava le gallerie dal di fuori, come un estraneo, non gli parevano più le stesse. Era proprio finita, non c’era più niente da fare sottoterra, e non restava ormai che chiudere e far salire il lago.

È sempre un momento un po’ speciale, quello del primo invaso. È un momento insieme bello e triste, perché corona un lavoro comune e mette anche fine a qualcosa che ha legato gli uomini che l’hanno fatto. Calano le paratoie, a monte comincia a formarsi il lago, l’acqua sale velocemente, l’intera valle va sotto, e tutti sentono che qualcosa è cambiato.

Quando chiusero, a Piccolo Shjigoro, stava per cominciare la stagione delle piogge. Chissà se  erano davvero pronti per farlo, in molti casi ci si fa prendere dalla frenesia quando s’avvicina quel momento e questo non aiuta a sceglierlo bene. Forse non volevano che la stagione andasse perduta, perché ci vogliono almeno tre anni di pioggia buona per riempire un lago grande quanto Piccolo Shjigoro e l’acqua è preziosa, è peccato sprecarla. E poi è vero che, dopo tanti rinvii, a un bel momento bisogna pur decidersi. Così, dopo aver discusso e cambiato idea tante volte, fu fissato il giorno e tutti a Piccolo Shjigoro seppero che di lì a due mesi l’invaso avrebbe avuto inizio.

Ci fu un sacco di lavoro da fare, in quei due mesi. Non è una cosa da nulla prepararsi a mandare sott’acqua una regione vasta come Piccolo Shjigoro e per quanto uno si dica che ha avuto sei anni per prepararla, è quando ha fissato la data che s’accorge di tutto quello che ancora resta da fare. A Kourouma toccò lavorare giorno e notte, il cantiere funzionava ventiquattr’ore su ventiquattro, la cresta della diga brulicava di uomini, le squadre salivano e scendevano per le impalcature, correvano nei tunnel, si calavano nei pozzi, s’arrampicavano sui tralicci dei casseri e delle gru, e mentre si davano da fare a quel modo, in cantiere arrivarono i soldati.

Giunsero il giorno stesso in cui fu annunciata la chiusura, a bordo dei loro camion, dalla pista del nord. Li comandava un vecchio magro, piccolo di corporatura, col volto grinzoso, gli occhi sempre socchiusi, l’aspetto sonnolento e mite. I suoi uomini bivaccavano davanti alle tende dell’accampamento a ridosso del cantiere. La sera bighellonavano tra i banchi del mercato, scroccavano sigarette ai commercianti, molestavano le donne e rubacchiavano tra le capanne.

Ogni giorno andavano in battuta nella boscaglia. Partivano all’alba e tornavano la sera carichi di gente e di masserizie. Il loro compito era rastrellare la valle e sgomberarla da tutti quelli che, malgrado gli annunci e gli espropri, ancora s’ostinavano a viverci. Perché di lì a poco la valle sarebbe stata sommersa, e bisognava per forza sgombrarla. I militari avevano fissato un campo avanzato a Grande Shjigoro e battevano la zona evacuando le famiglie che erano rimaste nelle capanne. Ce n’erano ancora chissà quante, sparse nella foresta, villaggetti isolati raggiungibili solo a piedi con ore e ore di marcia. Raccontarono brutte storie, poi, su quel che accadde nella foresta. Ma era un intervento necessario e da tempo ormai tutti sapevano della diga, quelli che avevano potuto s’erano trasferiti più a valle già da tempo, e agli sfollati il governo aveva dato nuove case, o almeno le aveva promesse.

I militari rastrellarono la valle per quasi due mesi e quando finalmente le operazioni di sgombero finirono, il comando di piccolo Piccolo Shjigoro diede via libera e le paratoie furono calate. Ma la regione di Piccolo Shjigoro, allora, era selvaggia, nessuno poteva sapere con precisione quanta gente vivesse lassù. Così, quando l’acqua la invase, come si poteva essere certi che non vi fosse ancora qualcuno, rimasto indietro?

A quell’epoca sulla diga si lavorava ancora. Kourouma e gli altri operai vedevano dall’alto l’acqua riempire a poco a poco la valle, cancellando ogni giorno anelli successivi di bush. Poi arrivarono le prime piogge, il fiume si gonfiò e il livello crebbe più in fretta. L’acqua salì per diverse settimane. Il lago non era ancora immenso come oggi, ma era già grande e profondo e il fiume spingeva contro la diga molte cose. Tronchi d’alberi, cespugli, carcasse di animali e resti di capanne. Tutta roba che s’arenava sulle sponde e Kourouma scendeva lungo la scarpata, con gli altri operai, a raccoglierla, per tener puliti i fianchi della diga.

Un mattino trovarono contro le rocce un corpo. Era una donna, gonfia come Kourouma non aveva mai visto e pesta da far impressione. La tirarono su e la stesero sulle rocce. Il corpo doveva aver sofferto molto per ridursi così, ma forse il peggio l’aveva avuto quando lei era già morta. Era irriconoscibile, perché l’acqua l’aveva tumefatta e gli uccelli dovevano averla molto beccata mentre galleggiava. Ma chiesero ugualmente in giro se per caso qualcuno la conoscesse. Così ci fu una specie di processione sulla riva del lago, ma nessuno seppe identificarla e allora Kourouma e gli altri decisero di seppellirla lì.

Tuttavia prima che potessero farlo arrivarono i soldati. Avevano saputo della donna ed erano molto nervosi. Una pattuglia di una dozzina di uomini, al comando di un sergente grosso e brutale, che trattò gli operai con prepotenza e li minacciò. Qualcuno reagì, sicché volarono botte e insulti, e alla fine i soldati ottennero il corpo e portarono via anche gli operai. Li condussero nel loro accampamento e li interrogarono. Kourouma, come gli altri, non aveva niente da aggiungere a ciò che i soldati vedevano coi loro occhi. Raccontarono di come avevano trovato la donna e della gente che era venuta a vederla. I soldati divennero ancor più nervosi e fecero un sacco di domande e li trattennero diverse ore prima di lasciarli andare e tornarono poi, la sera, a frugare nelle capanne. Il corpo se lo tennero loro.

Il giorno dopo il comandante in persona venne al villaggio con due camion pieni di soldati. Il vecchio era calmo e si comportava molto diversamente dal sergente. Radunò gli operai sul piazzale del mercato e tenne loro un breve discorso. Disse di non raccontare in giro la storia della donna, perché era una brutta disgrazia che avrebbe gettato un’ombra sulla diga. Era un peccato, disse, rovinare un lavoro così bello. Quel che era successo era triste, ma ormai non c’era niente da fare. Aveva dietro di sé i soldati con le armi ai piedi, che fissavano gli operai con odio. Ma gli occhi del vecchio erano mansueti e il suo tono di voce gentile, e anzi parlò in un modo che alla fine fece persino un po’ pena. Certo, anche i soldati avevano le loro ragioni. Avevano paura, perché in fondo era compito loro sgomberare quelli che vivevano nella vallata. E adesso che c’era di mezzo un morto, con tanta gente che l’aveva visto, non sapevano bene in che modo accomodare la faccenda.

Però la notte successiva arrivarono altri corpi, e altri ancora nei giorni che seguirono. Kourouma ne contò sedici, mescolati ai tronchi e a tutto quello che il fiume trascinava con sé. A qualcuno parvero di più, ma non si poteva esser certi del numero perché a mano a mano che i corpi arrivavano i soldati scendevano lungo le sponde a recuperarli. Nessuno seppe cosa ne facessero dopo, Kourouma e gli altri operai non poterono più accostarsi alla riva, i soldati la presidiavano giorno e notte. Le pattuglie erano di continuo in perlustrazione e non ci furono mai tanti soldati come allora a Piccolo Shjigoro. Quanto a Kourouma, sapeva ormai cosa fare. Quando vedeva un corpo doveva solo far finta di nulla, o avvisare i soldati e poi allontanarsi, pensavano loro al resto.

Continuò così per più di una settimana e qualcuno raccontò di averli visti seppellire i corpi in una radura del bush, in un’unica fossa; secondo altri li bruciarono. Ma la gente ha molta fantasia e ama parlare di quello che non sa. Poi, a poco a poco, il trasporto del fiume diminuì. Non scendevano più, con la corrente, né tronchi né cespugli, e nemmeno cadaveri. Il lago si alzò e le rive tornarono ad essere tranquille e pulite. Allora anche i soldati se ne andarono.

* * *

«Perché racconti queste storie?» disse Dal Pont. «Non è vero niente, non credergli. Conosco altra gente che era a Piccolo Shjigoro quando il lago cominciò a riempirsi. Fu un periodo triste, questo è vero: perché il cantiere finiva e la gente cominciava a partire e la valle se n’andava sott’acqua. Molti animali annegarono. Trovavano le carcasse contro la diga, assieme ai tronchi. Ma non trovarono mai nessun corpo d’uomo o di donna. Perché inventi, Kourouma, vuoi spaventare i più giovani?»

diga1«Fu una cosa così lugubre – ribatté Kourouma –. Per notti e notti gli animali si lamentarono. Sentivamo i muggiti dei bufali intrappolati, che non potevano più scappare. Durante il giorno il cantiere copriva i lamenti, ma di notte tornavano impedendoci di dormire. Andò avanti per settimane».

«Vieni via», mi disse Dal Pont. «E non dar retta alle storie di Kourouma, inventa tutto. Per gli animali furono organizzate delle battute. Molti furono catturati o cacciati fuori dalla valle. Altri annegarono, ma non tanti come dice Kourouma. E oggi a Piccolo Shjigoro c’è un grande lago. La campagna attorno è rinverdita e le famiglie coltivano il riso e il mais, oppure pescano. Molta gente è venuta a stabilirsi lungo le rive e la regione è diventata fertile, da Piccolo Shjigoro arriva cibo per mezza nazione. È male questo?».

Ci alzammo tutt’e tre. Molta gente se n’era già andata, altra era ancora ai tavoli. Il festino andava spegnendosi e le donne degli operai ramazzavano gli avanzi e li ficcavano in buste e sporte per portarseli via. Dal Pont e Kourouma si spartirono le bottiglie rimaste, poi ci avviammo. Kourouma rientrò al villaggio dei neri. Io e Dal Pont ci incamminammo verso le nostre baracche, al campo dei bianchi. Ero un po’ sbronzo e la testa mi girava. Passando davanti all’officina, vidi la squadra di carpentieri che lavorava a smantellare quella chiesa improvvisata. Mi fermai a guardare, finché Dal Pont tornò indietro.

«Per domani l’officina sarà di nuovo a posto», disse. «Quel vecchio fanfarone di Kourouma! Dovrebbe avere ottant’anni per aver fatto Piccolo Shjigoro, è una diga degli anni Quaranta. Racconta un sacco di balle!»

Mi mollò una pacca sulla spalla con la mano libera. L’altra stringeva al petto tre bottiglie. Si voltò e ripartì, barcollante, verso la camera e la branda, a scolarsele in pace. Io restai lì. Smantellavano l’altare, portavano via le panche, rimettevano al loro posto gli armadi in ferro e le casse di attrezzi. Mi dava un certo conforto, non so perché, guardarli lavorare. Quando fu il momento di tirar giù il crocefisso, lo calarono lentamente, appeso al gancio, e il vento lo fece ondeggiare. Era bello, lassù per aria, ma ondeggiava troppo e a metà discesa non riuscivano più a tenerlo. Allora lo ritirarono su, tenendolo corto di cavo, in modo che oscillasse un po’ meno. Un ragazzo magro s’arrampicò sulla scaletta, strisciò lungo le vie di corsa del carroponte e arrivò fino al gancio. Calò giù un cappio e vi infilò un braccio della croce. Così imbracato, poterono calarlo. Gli operai giù dabbasso lo tenevano con la fune tesa e non oscillava più come prima. Quando toccò terra sciolsero le imbracature e l’appoggiarono a un pilastro. Ricomparve il saldatore zoppo, col rametto di cola tra i denti, s’accovacciò e cominciò a disfarlo, per recuperare le lamiere, dissaldando le putrelle con le bombole e col cannello.

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