Anna Camaiti Hostert
Alla vigilia delle elezioni di “midterm”

Salvate Obama!

Repubblicani e stampa liberal, aiutati da Isis e ebola, non risparmiano le critiche al presidente, tacciato di mancanza di leadership, poca passionalità politica, attendismo. Nonostante le riforme e l'uscita dal buio dopo la crisi del 2008, i democratici sembrano perdere sempre più terreno...

Domani, 4 novembre, negli Stati Uniti si andrà a votare per le elezioni di midterm per rinnovare 36 seggi del Senato, 465 seggi della House of Representatives e 36 governatori. La situazione non appare rosea per i democratici se è vero che tutti i sondaggi danno una riconferma della maggioranza repubblicana alla House of Representatives e una possibile conquista anche del Senato. In alcuni rari casi la vittoria si gioca sul filo del rasoio anche se in queste ultime settimane i democratici sembrano avere perso ancora terreno. Ci sono Stati in bilico come Iowa e Colorado, sebbene i democratici abbiano guadagnato in Georgia. In Kansas, uno Stato repubblicano, la speranza dei democratici è poggiata su un uomo di affari indipendente dopo che il candidato democratico è uscito di scena. Ma per il resto non sembra ci saranno grandi sorprese. Il presidente ormai è dato, anche dalla stampa liberal,più come un ostacolo che come un valore aggiunto, al punto che molti candidati del suo partito si sono opposti alla sua presenza nelle loro campagne elettorali. Le crisi causate dall’aggressiva presenza dell’Isis in Medioriente e dalla recente epidemia di ebola non hanno certo giovato. A dispetto del fatto che l’economia e la riforma sanitaria, due pietre miliari della presidenza Obama, stiano finalmente marciando e abbiano ridotto per definizione le diseguaglianze sociali, permettendo di superare due delle emergenze più gravi che il paese si è trovato ad affrontare. E a dispetto del fatto che sono stati creati 10 milioni di posti di lavoro negli ultimi quattro anni e che la disoccupazione è scesa sotto il 6%.

midterm2Se le cose stanno così, perché dunque Obama – e lo leggo anche sui giornali italiani che lo danno come un fatto acclarato e logico senza tuttavia chiedersi il perché – è così lontano dal favore popolare? Dopo avere raggiunto questi importanti traguardi dovrebbe infatti essere il contrario. Perché la stampa liberal americana continua a martellare i suoi lettori con questo scenario negativo? In un editoriale del Washinton Post Dana Milbank, partendo dall’accusa dei repubblicani contro Obama di essere un «tiranno, un autocrate», scrive che nelle ultime settimane hanno cambiato di 180 gradi la loro accusa definendolo «un leader passivo, niente altro che un bystander». Così il giornalista, citando un collega conservatore che appunto definisce il presidente semplicemente «come un osservatore con un atteggiamento disorientato», si dichiara d’accordo con questo giudizio, aggiungendo che Obama «è un presidente per caso». In particolare si sofferma citando un paradosso secondo cui questo presidente così passivo è allo stesso tempo così ideologicamente ambizioso, come non si ricordava da anni. E commenta che questo non è in fondo un paradosso, in quanto le ambizioni presidenziali sono state frustrate dopo le elezioni del 2010 quando i repubblicani hanno ottenuto il controllo della House of Representatives. Da allora le azioni dell’inquilino della Casa Bianca non hanno fatto che riflettere la sua debolezza: sono state limitate negli obiettivi e nella durata. E scherza chiamando Obama «il tiranno deconcentrato! il dittatore disimpegnato! L’uomo che straccia la Costituzione con un vuoto di leadership».

Dana Milbank arriva perfino a commentare che di fronte alle rimostranze di molti repubblicani e di alcuni democratici che lo accusano di avere fatto troppo poco per difendere il paese dall’epidemia di ebola, o di non avere combattuto più aggressivamente l’Isis, Obama, «come al solito, rimane spassionato, freddo, distaccato». E si serve, per confermare la sua tesi, anche del commento di David Axelrod il quale afferma, parlando del presidente, che «risponde sempre in un modo molto razionale, cercando di mettere insieme i fatti, contando sui consigli dei migliori esperti e mobilitando le risorse necessarie. Non c’è dubbio che il presidente resiste a dare al suo ruolo una natura teatrale». Come se questi fossero sintomi di una mancanza di leadership e non invece la prova provata del comportamento di un leader equilibrato, misurato che usa il proprio potere per risolvere i problemi del paese e non per imporre le sue vedute o tantomeno distrattamente per lavarsene le mani. Cosa questa che lo renderebbe un bystander. La teatralità in politica invece di essere un sintomo di gigioneria e di poca serietà è, secondo Milband, un valore aggiunto. Noi in Italia ne sappiamo qualcosa! Il giornalista invece rincara la dose, citando Leon Panetta il quale accusa Obama di basarsi per le sue scelte più «sulla logica di un professore invece che sulla passione di un vero leader» e concludendo che il difetto fondamentale di questo presidente non è «che abusa del suo potere, ma invece che lo usa troppo poco».

Wavy FlagQuesto ci riporta alle elezioni di midterm in cui sono in gioco le diverse strategie dei due partiti e molti interrogativi su questi anni di presidenza democratica e sugli obiettivi che ha o non ha raggiunto. Certo nessuno vuole negare che errori siano stati commessi, come ad esempio la grande confusione che è regnata subito dopo l’entrata in vigore della riforma sanitaria. Ma questo non può essere qualcosa che offusca tutto ciò che è stato fatto. Dunque Obama ha usato troppo poco il suo potere. Un potere immenso, ricordiamolo, troppo spesso abusato. Un potere che tuttavia a lui è servito per infondere un impulso all’economia che adesso sta risalendo, per implementare una riforma sanitaria da decenni necessaria in un paese come gli Stati Uniti che si definisce civile, ma anche per ritirare le truppe da paesi dove non dovevano essere e per scongiurare guerre in paesi dove è la sovranità popolare a doversi affermare. E infine, last but definitely not least, per cercare di estirpare un razzismo talmente incistato nel paese da marcare l’atteggiamento di Obama come troppo simile a quello di un professore di Harvard e troppo poco a quello passionale di un politico. Come se un nero professore di Harvard non fosse ammissibile. Ma potesse invece essere solo un passionale, alla stregua di un bestione vichiano, tutto «stupore e ferocia». Fallito allora lo stereotipo del tiranno autocrate l’attuale presidente non potrà che essere declassato a leader senza carisma e senza palle. Perché usa troppo poco il suo potere. Certo i bianchi non sono abituati a questo comportamento! Invece proprio per questo a me pare un vero politico di razza che giustamente ritiene il potere un mezzo e non un fine. Come aveva fatto a suo tempo Lincoln. Se lo dovrebbero ricordare i repubblicani! E soprattutto i giornalisti liberal!

L’altra grande dote di Obama è stata quella di usare una strategia bipartisan nel tentativo di superare le differenze ideologiche. E questo non ha funzionato, perché i repubblicani, l’ho ripetuto più volte su queste pagine, hanno raggiunto livelli di ideologismo da fare impallidire i vecchi partiti comunisti dell’Est. In un articolo del New York Times, David Brooks dibatte sul termine partyism, che potremmo tradurre con partigianeria, coniato per l’appunto da un professore di Harvard, Cass Sunstein, per indicare l’importanza che l’appartenenza a una determinata parte politica gioca oggi nella vita delle persone. E così cita statistiche che mostrano che mentre negli anni 60 solo il 5% dei repubblicani e democratici si dichiarava “dispiaciuto” se i figli sposavano qualcuno dell’altro partito, nel 2010 la percentuale saliva al 49% per i repubblicani e al 33% per i democratici. E partendo dal presupposto che la politica è «un’attività passionale nella quale i valori necessariamente si scontrano», giunge a concludere che adesso però le cose sono cambiate. Si sono estremizzate. Perché in base alla scelta di certi valori si può perdere o prendere un posto di lavoro, ispirare fiducia o viceversa essere discriminati. E afferma che «la vita personale è stata de-moralizzata e la vita politica iper-moralizzata. La gente è meno giudicante riguardo agli stili di vita, ma lo è di più rispetto alle etichette politiche… La scelta politica, a seconda dei casi, diviene un marker di dignità e di decoro. Coloro che non sono membri della parte o del partito giusto sono destinati a non ricevere solidarietà o a essere considerati incapaci di lealtà verso il loro paese».

Cornell WoolridgeLe ragioni che Brooks fornisce per motivare la iper-moralizzaione della politica sono tre, molto diverse tra di loro. La prima più convincente, ma le altre due del tutto slegate, a mio parere, da tale processo: sono d’accordo che la progressiva mancanza di figure come quella dell’intellettuale pubblico che discuteva direttamente di questioni morali e che oggi viceversa è sostituito dagli ospiti dei talk show, può determinare una conseguente polarizzazione dello scontro; più difficile mi risulta dare credibilità all’affermazione che la iper-moralizzazione della politica dipenda dal fatto che ognuno di noi tende a definirsi più attraverso le proprie convinzioni che attraverso la religione di famiglia, l’identità etnica o regionale. E ancora meno dal fatto che le dispute elettorali, non vertendo semplicemente su fatti tecnici, sono invece realmente basate sul tessuto esistenziale della vita. Ambedue queste constatazioni rappresentano un passo in avanti in direzione delle scelte che ognuno è libero di fare ma non hanno niente a che vedere con l’iper-moralizzazione della politica, piuttosto con la politica tout court. Altra cosa invece è l’ideologizzazione dei valori e delle strategie per ottenerli. La conclusione di Brooks che il personale non è politico confonde cose diverse tra di loro. Ogni scelta personale è un fatto politico imprescindibile da quello che si è, dalle convinzioni e dagli insegnamenti familiari, religiosi, etnici e dalla nostra concezione esistenziale della vita. Basta esserne coscienti ed essere in politica abbastanza duttili da capire cosa sia il bene pubblico e come ottenerlo, scavalcando le staccionate ideologiche.

Per questo la colpa del fallimento della strategia bipartisan di Obama è da attribuire interamente alla nuova veste che il partito repubblicano ha assunto iper-ideologizzando i suoi valori assieme alla sua strategia e pertanto iper-moralizzando la politica. Facendo muro compatto contro ogni proposta presentata da Obama. A differenza di grandi e illustri predecessori. Le distinzioni dunque vanno fatte, altrimenti «in una notte dove tutte le vacche sono nere» non si distinguono i contendenti. È facile attribuire a Obama e ai democratici colpe che non hanno e dire che questa strategia appartiene ad ambedue i partiti. Così però si confonde chi le riforme le ha fatte davvero e ha portato il paese fuori dal buio della crisi del 2008 con chi invece, nel caso prenda in mano il paese promette leggi contro l’emigrazione, contro il salario minimo, contro la riforma sanitaria, contro il ritiro delle truppe dai luoghi di guerra e a favore invece di invasioni militari nel nome di una presunta civiltà occidentale, contro l’aborto (anche in caso di stupro) dichiarando che anche i medici che lo praticano devono essere puniti e soprattutto a favore della possibilità di portare indiscriminatamente le armi senza nessun controllo. Perché questa è fondamentalmente la piattaforma della strategia repubblicana. E questo devono avere in mente gli elettori domani.

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